La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 30 luglio
2013
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Nel film “Il laureato”, di Mike Nichols, del 1967,
considerato uno dei più importanti film della storia, quando il giovane
Benjamin Braddock (un grande Dustin Hoffman) torna a casa dopo la laurea, tutti
si preoccupano del suo avvenire e di come farlo sposare con la figlia del socio
del padre. Il solerte amico di famiglia, il signor McGuire, lo prende da parte
e gli dice: “Benjamin: ti dirò una sola parola: plastica”. Aveva ragione il
signor McGuire; nella plastica, sembravano riposte le fortune del mondo; negli
anni sessanta la produzione mondiale di materie plastiche era di circa 15
milioni di tonnellate all’anno, oggi si aggira intorno a 300 milioni di
tonnellate all’anno, un quarto di queste fabbricate nel solito gigante
industriale cinese.
La plastica è dovunque, dai sacchetti per la spesa alle
automobili, dal rivestimento dei fili elettrici alle tubazioni per l’acqua e le
fogne, dagli imballaggi che consentono di conservare al freddo gli alimenti, ai
giocattoli, eccetera. “Plastica”, però, è un nome che non dice niente, perché
esistono numerosissimi tipi di materie plastiche, macromolecole sintetiche
costituite da migliaia a milioni di atomi uniti fra loro. Di alcune conosciamo
l’abbreviazione perché la troviamo stampigliata sui relativi manufatti: PE,
polietilene a bassa o alta densità; PP, polipropilene; PET, tereftalato di
polietilene; PV, polivinile; PS, polistirolo. Gli oggetti che usiamo sono
miscele complesse di alcune di queste macromolecole con plastificanti,
coloranti, additivi di vario genere, capaci di adattare ciascuna miscela ai
vari usi.
Benché sia così buona e utile, esiste una diffusa
contestazione e per alcuni ambientalisti plastica è parolaccia. Ciò deriva dal
fatto che i manufatti di materia plastica sono quasi indistruttibili, il che è
desiderabile in molte applicazioni nelle quali si desidera che tubi, fili
elettrici, parti di macchinari siano duraturi, resistenti agli acidi,
inattaccabili dall’acqua e dai batteri. Invece per molte altre applicazioni,
soprattutto negli imballaggi destinati ad una breve o brevissima vita prima di
diventare rifiuti, si tratta di un grosso inconveniente dal punto di vista del
loro smaltimento. Si dice normalmente che, per evitare discariche e
inceneritori, occorre raccogliere i rifiuti separatamente, per qualità
merceologica, in modo da poterli sottoporre a riciclo, a ricostruzione delle
merci originali, e questo viene anche ripetuto per i rifiuti di materie
plastiche.
Il successo della raccolta differenziata è affidato alla
buona volontà dei cittadini ed è fortunatamente crescente anche in Italia, ma
la trasformazione degli oggetti usati di plastica in nuovi oggetti presenta
difficoltà tecnico-scientifiche. “Se”, lo scrivo fra virgolette, fosse
possibile ottenere tutti insieme i rifiuti, per esempio di PET (per lo più le
bottiglie di acqua), o di PE, in via di principio, dopo una pulizia grossolana,
sarebbe possibile farli fondere e trasformarli di nuovo in oggetti commerciali
dello stesso materiale. Purtroppo dei circa 2 milioni di tonnellate di oggetti
di plastica a vita breve (per lo più imballaggi) immessi in commercio ogni anno
in Italia soltanto circa 600.000 tonnellate sono raccolte in maniera
differenziata; circa 300.000 tonnellate sono avviate al riciclo vero e proprio,
cioè alla trasformazione in altri prodotti vendibili, e circa 750.000 sono
bruciati negli inceneritori o nei forni da cemento, come miscele di materie
plastiche diverse, o plasmix. Il resto finisce nelle discariche.
Da questi numeri approssimativi è facile vedere i motivi
della contestazione ambientalista contro le materie plastiche: le discariche
sono sempre più difficili da trovare; la combustione negli inceneritori provoca
inquinamento atmosferico; e poi viene contestata la grande quantità di
petrolio, la materia prima, usata per produrre le materie plastiche, e infine
la resistenza, la non biodegradabilità, delle plastiche quando finiscono nei
campi, nei fiumi, nel mare. Le soluzioni, finora tentate, quella di ”inventare”
delle materie plastiche “verdi”, biodegradabili, capaci di decomporsi in
settimane o mesi, anziché in anni o decenni, o quella di diminuire il peso di
alcuni oggetti di plastica come i sacchetti per la spesa, si sono rivelate
finora dei palliativi.
Nell’attesa di un materiale che sia lavorabile con le stesse
tecniche usate oggi e sia adatto per le stesse applicazioni delle materie
plastiche odierne e che ”scompaia” in pochi giorni quando è buttato via,
proprietà in evidente contrasto fra loro, restano i processi capaci di
trasformare le plastiche miste in qualcosa di vendibile; non saranno più
bottiglie o tubi, ma potrebbero essere prodotti più poveri come pavimenti per
abitazioni o strade, infissi, panchine o tavole, qualcosa insomma che tolga
dalle discariche o dagli inceneritori una parte delle plastiche. Qualche
impresa si sta muovendo: non occorrono grandi impianti, la materia prima, i
rifiuti di plastiche sono disponibili nel Nord e nel Sud d’Italia e sono
oggetto anche in un commercio internazionale, con prezzi fra 100 e 300 euro
alla tonnellata.
C’è molto lavoro, anche nel Mezzogiorno, per studiosi,
inventori e imprenditori nel campo della chimica e della merceologia del
riciclo, nel nome di un ambiente meno sporco e inquinato.
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