sabato 23 ottobre 2010

Chi ha dato il nome al bunsen ?

2011 Anno internazionale della Chimica

Chimica News, n. 32, 26-27 (maggio 2010); Inquinamento, 52, (124), maggio 2010

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Era molto freddo l’inverno del 1945 e si gelava nel laboratorio di Bologna nel quale ho iniziato la mia avventura di chimico. Per scaldare un poco la stanza mi dissero di mettere un mattone sul “treppiede” e di scaldarlo col bunsen. Imparai così che il treppiede era un vero e proprio treppiede di ferro che sorreggeva un grande anello pure di ferro, su cui si poneva una reticella amiantata (era così, allora) destinata a sostenere dei recipienti di vetro, detti “palloni” o bevute”, contenenti il liquido da riscaldare; imparai inoltre che un mattone è fatto di un materiale refrattario che, una volta scaldato, libera lentamente calore nell’ambiente circostante, cosa che del resto avevo già intuito perché in molte case senza riscaldamento ci si difendeva un poco dal freddo avvolgendo un mattone, scaldato nel camino, in una coperta che veniva poi messa nel letto. Feci infine la conoscenza col “bunsen”, un fornello a gas costituito da un tubicino di ferro verticale la cui fiamma poteva essere regolata, più o meno “calda”, modificando l’afflusso dell’ossigeno dell’aria attraverso una apertura regolabile posta, in basso, nel fornello, vicino al tubo di entrata del gas.

Il “becco bunsen”, come era confidenzialmente chiamato (con sottintese ironie) il fornello, portava il nome di Robert Wilhelm Bunsen (1811-1899), chimico e fisico tedesco, laureato in chimica all’Università di Gottingen a 19 anni. Figlio di una famiglia borghese, il padre era bibliotecario, dal 1930 al 1933 poté frequentare vari laboratori europei e venne a contatto con i chimici illustri del tempo: F.F.Runge (1794-1867), lo scopritore dell’anilina, Justus von Liebig (1803-1873) a Giessen e Eilhard Mitscherlich (1814-1865) a Bonn. Al ritorno in Germania, appena ventiduenne, fu nominato professore a Gottingen, Università che lasciò nel 1836 per occupare la cattedra che era stata di Friedrich Woehler (1800-1882) nell’Università di Kassel.

Doveva essere un po’ inquieto questo Bunsen perché due anni dopo cambiò ancora Università a passò a insegnare a Marburgo dove condusse importanti ricerche sui sali di arsenico. Nel periodo dal 1838 al 1844 condusse ricerche sui gas e studiò il recupero dei gas d’altoforno e dei convertitori della ghisa che fino allora andavano in gran parte perduti. Nel 1843 mise a punto la pila zinco-carbone che porta ancora il suo nome e con l’elettricità così ottenuta produsse per elettrolisi dei rispettivi sali fusi, vari metalli puri fra cui magnesio, alluminio, sodio, calcio, litio. Nel 1852 fu chiamato nell’Università di Heidelberg ad occupare la cattedra che era stata di Leopold Gmelin (1788-1853), e qui finalmente si fermò e rimase ad insegnare fino alla pensione nel 1889. A questo periodo risale l’inizio delle ricerche di fotochimica e spettroscopia dapprima con l’inglese Henry Roscoe (1833-1915), venuto per alcuni anni ad Heidelberg, poi con Gustav Kirchhoff (1824-1887). Per osservare la radiazione di emissione dei metalli Bunsen aveva bisogno di una fiamma ad alta temperatura e incolore in cui porre il campione da analizzare e nacque così il bruciatore che porta il suo nome. Del resto il test alla fiamma è la prima cosa che si impara nel corso che ai miei tempi era chiamato “Esercitazioni di chimica analitica qualitativa del primo anno”.

A dire la verità il “bunsen” ha una storia un po’ complicata; è decritto per la prima volta in un articolo pubblicato da Bunsen con Roscoe nel 1857, ma sembra che fosse usato nel laboratorio già nel 1855 e che sia stato costruito da Peter Desdega, il meccanico del laboratorio (chi non ricorda quelli che erano una volta i preziosi “tecnici” che sapevano fare tutto, dal soffiare il vetro allo sbloccare viti arrugginite), il quale a sua volta applicò alle necessità di laboratorio i perfezionamenti delle lampade a olio e a gas che erano già noti. Nel 1780 il fisico e inventore svizzero Aimé Argand (1750-1803) aveva migliorato le prestazioni delle lampade ad olio circondando la lampada con un tubo, aperto alle due estremità, attraverso il quale l’aria aspirata dal basso portava ossigeno alla fiamma rendendola più luminosa. Qualcosa del genere, applicato alle necessità di laboratorio, aveva descritto nel 1827 l’inglese Michael Faraday (1791-1867) nel suo noto trattato sulle “manipolazioni chimiche”, sulla strumentazione di laboratorio. La novità del contributo di Desaga fu contestata da altri inventori come Julius Pintsch (1815-1884) nel 1955 e R.W.Elsner nel 1856, e Desaga fu costretto a rivendicare i suoi meriti in un articolo pubblicato nel 1857.

Non risulta che ci siano state liti giudiziarie e si sa solo che il figlio di Desaga aprì una ditta per la fabbricazione dei bruciatori che si diffusero in tutto il mondo. Il loro nome però resta legato a Bunsen che ne fece buon uso nelle numerose ricerche di spettroscopia per le quali costruì vari spettroscopi e poté descrivere le righe di emissione di molti elementi. Con questo metodo scoprì, insieme a Kirchhoff, nel 1861 gli elementi cesio e rubidio. Quante persone e quante storie intorno ad un tubicino di ferro !

martedì 19 ottobre 2010

Camillo Porlezza (1884-1972) - Persone della Chimica

2011 Anno internazionale della chimica

Paolo Berbenni

Non sono numerosi i chimici che si dedicarono allo studio delle acque minerali e termali e dei fanghi terapeutici. Occupa un posto di privilegio il Prof. Camillo Porlezza.

Nato a Bergamo il 2 dicembre 1884,si laureò a Pisa nel 1908 in chimica. Subito nominato assistente presso l’Istituto di chimica generale della stessa città, presa la libera docenza in Chimica generale nel 1913, venne chiamato nel 1929 alla cattedra di chimica generale che tenne per 26 anni; nel 1939 venne inviato ad insegnare per un triennio Chimica fisica e Chimica superiore nella Università del Brasile a Rio de Janeiro su richiesta di quel governo. Nel 1948, su invito del governo peruviano, si recò là per un periodo di quattro mesi per studi e conferenze su sorgenti idrotermali di quelle regioni. Prima di essere chiamato in cattedra fu vincitore, nel 1925,del concorso per professore di chimica alla Accademia navale di Livorno e nel 1926 nominato professore di chimica farmaceutica. Nel periodo dal 1929 al 1939 (salvo l’interruzione di un anno) è stato Preside della Facoltà di Farmacia. Nel 1955 fu collocato fuori ruolo e nel 1960 a riposo.

mercoledì 13 ottobre 2010

Stanley Miller (1930-2007): persone della chimica

2011 Anno internazionale della Chimica

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L’ambiente è il grande palcoscenico in cui si svolge il dramma della vita. Ma che cosa è la vita ? Nessuno è in grado di dare una ragionevole risposta. Se ponete la domanda a biologi, fisici, sociologi, educatori, cultori di etica, religiosi, eccetera, avrete tante risposte differenti, ma nessuna definitiva. Se ponete la domanda a un chimico questi vi dirà che bisogna partire dagli elementi della tabella di Mendeleev: il primo è l’idrogeno, e questo c’è sempre in qualsiasi forma di vita, come ci sono sempre gli elementi che si trovano poco dopo: il carbonio e poi l’azoto e poi l’ossigeno e, più avanti, negli esseri viventi vegetali e animali, gli elementi sodio, zolfo, eccetera. Nelle infinite forme in cui si manifesta la vita si trovano tutti gli elementi noti. Ma il vero problema è come e perché questi elementi si sono aggregati “all’inizio”, formando qualcosa che fosse capace di riprodursi; “un giorno” qualcosa o qualcuno “deve” essere intervenuto a predisporre le prime sintesi chimiche, un dio o il caso o chi volete.

Di certo “all’inizio”, questa scheggia di rocce calde che chiamiamo Terra, quando è stata lanciata nello spazio, aveva forma e composizione del tutto diverse da quelle che conosciamo noi oggi. Nel 1924 un biologo russo, Alexandr Oparin (1894-1980), scrisse un libro intitolato: “L’origine della vita”, nel quale indicava che la Terra all’origine era circondata da una atmosfera ricca di idrogeno. Questa atmosfera “riducente” conteneva idrogeno gassoso e poi metano (cioè idrogeno combinato col carbonio), ammoniaca (cioè idrogeno combinato con azoto), vapore acqueo (cioè idrogeno combinato con ossigeno). Dai gas dell’atmosfera primitiva, per successive reazioni chimiche, si sarebbero formate molecole organiche e poi acqua liquida che avrebbe cominciato a “piovere” per milioni di anni, sulla superficie terrestre, raffreddandola e generando grandi mari; le piogge avrebbero trascinato le molecole organiche nei mari che si sarebbero trasformati in una specie di “brodo prordiale” e qui, attraverso innumerevoli altre sintesi chimiche, si sarebbero formate molecole capaci di autoriprodursi, cioè quella che noi chiamiamo “vita”.

Se le cose fossero andate così, ci sarebbe voluto solo un po’ di pazienza per assistere alla formazione di molecole sempre più complesse come quelle che si trovano nei chicchi del grano, nella carne degli animali, nelle ali delle farfalle, e poi l’ossigeno che troviamo oggi nell’aria insieme all’azoto gassoso. E la natura, in quattromila milioni di anni, avrebbe avuto a disposizione tempo e pazienza in abbondanza. Il libro russo di Oparin rimase sconosciuto in Occidente per molti anni, ma nel frattempo, indipendentemente il biologo inglese J.B.S. Haldane (1892-1964) aveva avanzato la stessa ipotesi. Ma sarà poi andato proprio così ?

La risposta è stata data dal chimico americano Stanley Miller (1930-2007) che, con un celebre esperimento in laboratorio, mostrò che le ipotesi di Oparin e Haldane avevano un fondamento reale, un “colpo” che qualsiasi chimico avrebbe desiderato fare almeno una volta nella propria carriera. Miller aveva 23 anni quando, da studente nel laboratorio chimico dell’Università di Chicago, ebbe l’incarico da parte del suo professore, il premio Nobel per la chimica Harold Urey (1893-1981), di condurre un esperimento per vedere se, trattando con scariche elettriche una miscela di gas come quella ipotizzata per l’atmosfera primitiva, si sarebbero formate davvero delle molecole organiche. Le scariche elettriche avrebbero simulato quelle che certamente attraversavano l’atmosfera primitiva sotto forma di lampi.

Miller pose, in un “pallone”, così si chiamano i grandi recipienti sferici di vetro usati nei laboratori chimici, una miscela di idrogeno, ammoniaca, metano e vapore acqueo e fece passare, attraverso questa miscela, per una settimana di seguito delle scariche elettriche a 60.000 volt. Il pallone conteneva acqua che simulava l’oceano primitivo e che raccoglieva e “lavava” i gas della reazione. La storia racconta che Miller vide formarsi, sulle pareti interne del “pallone” di vetro, una specie di patina solida che fu analizzata e che si rivelò effettivamente costituita da molecole “organiche”, cioè contenenti, combinati insieme, gli elementi carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto, alcune addirittura in forma di amminoacidi molto semplici (glicocolla, alanina, acido aspartico); gli amminoacidi sono le pietre costitutive fondamentali di tutte le proteine, cioè della vita. I risultati furono descritti nell'articolo "Production of Amino Acids Under Possible Primitive Earth Conditions", pubblicato dalla rivista Science, 117(3046), 528-529 (1953).

Non era “la vita”, le molecole non erano in grado di riprodursi, ma l’esperimento mostrò che, effettivamente, da pochi semplici gas, potevano formarsi i mattoni fondamentali delle molecole presenti in tutti i viventi. L’esperimento di Miller ebbe una enorme risonanza. Adesso si trattava di vedere se e in quali condizioni, le semplici molecole organiche formate dai gas dell’atmosfera primitiva avrebbero potuto “ingrandirsi”, trasformarsi, sempre con mezzi chimici; ne nacque una speciale disciplina, la “chimica planetaria”, che per alcuni anni mobilitò diecine di studiosi. Le molecole semplici furono sottoposte a reazioni a freddo, a caldo, in acqua, sulle rocce delle terre emerse dove forse il “brodo primordiale” avrebbe potuto trascinarle, in presenza di speciali minerali che certamente esistevano nei continenti primitivi.

Per alcuni anni queste ricerche ottennero finanziamenti dalle agenzie spaziali perché forse avrebbe potuto dare qualche indicazione sull’origine di alcune semplici molecole organiche che apparivano presenti in lontani corpi celesti; ospitavano anch’essi qualche forma di vita ? Gli esperimenti d’altra parte destarono violenti dibattiti; in questa direzione si poteva pensare ad una vita senza bisogno di “un creatore” al di fuori della chimica e dell’elettricità; i critici misero in evidenza che per via chimica non si otteneva niente che giustificasse la formazione di molecole complesse e comunque capaci di riprodursi. Poi l’attenzione è stata attratta da altre cose, ma ricordo che, a me laureato in chimica da poco, questi esperimenti fecero grandissima impressione e destarono un po’ di invidia per la bravura di un mio quasi coetaneo.

E Miller ? Ottenne una laurea in chimica nel 1951, un dottorato in chimica a Chicago nel 1954 e ha poi insegnato per molti anni chimica e biochimica nell’Università della California a San Diego. Il suo nome resta legato per sempre ai suoi esperimenti giovanili che costrinsero brutalmente gli scienziati e gli intellettuali a guardare in faccia un inedito aspetto del problema della vita.

Vita morte e miracoli dei cloroderivati

2011 Anno internazionale della Chimica

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Il cloro è, si può dire, nato come soluzione ad un problema di inquinamento, lo smaltimento dell'acido cloridrico, il nocivo sottoprodotto della produzione del carbonato sodico col processo Leblanc.

Strano destino, quello del cloro e dei suoi derivati: salutati, alla loro nascita, come scoperte rivoluzionarie e liberatorie, hanno spesso svelato, dopo qualche tempo, di nascondere delle trappole tecnologiche da cui è stato faticoso e costoso uscire, come racconta il libro di Valeria Spada e Caterina Tricase, "Crescita e declino del sistema cloro", Torino, Giappichelli, 2000.

Non c'è dubbio che, come disinfettante delle acque, il cloro ha contribuito a debellare molte malattie portate da batteri e virus; solo dopo un secolo si è visto che il cloro provocava anche la formazione di sostanze indesiderabili. Uno dei primi derivati organici del cloro fu il cloroformio, salutato con entusiasmo come sostituto dell’infiammabile etere per le sue proprietà narcotiche ed anestetiche nelle operazioni chirurgiche; solo più tardi sarebbe stato scoperto che il cloroformio è velenoso e ne sarebbe stato vietato l'uso in anestesia.

I composti organici del cloro sono in genere non infiammabili e la scoperta che molti derivati del cloro --- trielina, tetracloruro di carbonio, percloroetilene, eccetera --- sono buoni solventi dei grassi permise di sostituire altri solventi infiammabili, come il solfuro di carbonio e la benzina, usati nell'industria olearia. Anche di questi, più tardi, è stata scoperta la tossicità.

Il cloro e i suoi derivati cominciarono ad avere cattiva stampa durante la prima guerra mondiale (1914-1919). I tedeschi, che avevano in quel tempo la più progredita industria chimica del mondo, usarono il cloro come gas asfissiante già nel 1915 a Ypres, nel Belgio. Si vide ben presto, però, che, se cambiava il vento, il cloro poteva intossicare gli stessi soldati tedeschi che lo avevano lanciato; il "perfezionamento" arrivò subito sotto forma di fosgene COCl2 (usato dai francesi a Verdun nel febbraio 1916) e di iprite (diclorodietilsolfuro, [CH2CH2Cl)2S], altro composto clorurato, usato dai tedeschi contro i franco-italiani a Ypres nel 1917. L'uso dei gas asfissianti sollevò una protesta generale che portò, nel 1925, al primo trattato che vietò l'uso in guerra di aggressivi chimici; l'iprite fu tuttavia usata dagli italiani durante la guerra contro l'Abissinia nel 1936.

Fra i successi del cloro vi fu la scoperta del cloruro di vinile, un derivato clorurato ottenuto dall'acetilene o dall'etilene, che poteva essere facilmente trasformato in una materia plastica destinata a grandi fortune e ad altrettanto grandi polemiche. La produzione industriale del cloruro di vinile e del cloruro di polivinile (PVC) cominciò nel 1928 negli Stati Uniti e nel 1933 in Germania; la loro fortuna era dovuta al fatto che con il PVC potevano essere fabbricati tubi, lastre, oggetti stampati, sacchetti per imballaggi, rivestimenti per fili elettrici, duraturi, non infiammabili, elastici. Soltanto a partire dagli anni 50 del Novecento è stato scoperto che il cloruro di vinile monomero, la materia prima per le resine PVC, è tossico e cancerogeno e che i manufatti di PVC, quando sono bruciati negli inceneritori di rifiuti, provocano la formazione di acido cloridrico corrosivo e inquinante.

Un altro successo del cloro si ebbe negli anni quaranta del Novecento quando fu scoperto che un idrocarburo clorurato --- il dicloro-difenil-tricloroetano, o DDT, peraltro noto già molti decenni prima --- presentava eccezionali proprietà insetticide. Con massicci impieghi di questa polvere i soldati americani riuscirono a sopravvivere nelle paludi e nelle giungle asiatiche, nelle zone europee infestate dalla malaria, a impedire la diffusione dei parassiti nei campi di prigionia, fra i popoli affamati, nelle città devastate dai bombardamenti.

Già negli anni cinquanta fu però scoperto che il “miracoloso” DDT e altri simili pesticidi clorurati, grazie alla loro eccezionale stabilità chimica, restavano inalterati nel suolo, nei raccolti, negli animali; anzi, essendo solubili nei grassi, passavano attraverso le catene alimentari e furono scoperti addirittura negli oceani lontani dai campi coltivati e dalle zone antropizzate. Ciò indicava che il DDT dai campi e dagli escrementi si diffondeva negli oceani e veniva trasferito da un animale all'altro fino a diventare un contaminante di tutta la biosfera.

Nel 1962 una biologa del Dipartimento dell'Agricoltura americano, Rachel Carson (1907-1964), scrisse un libro-denuncia intitolato "Primavera silenziosa". Il libro spiegava che, se si fosse continuato nell'uso agricolo indiscriminato degli insetticidi clorurati, questi si sarebbero diffusi in tutti gli esseri viventi al punto che un giorno, morti anche gli uccelli, la primavera sarebbe divenuta, appunto, silenziosa. Il libro ebbe un enorme successo e portò rapidamente, nonostante l'irritata opposizione dell'industria chimica e gli innegabili vantaggi di un pesticida efficace e a basso costo, al divieto dell'uso del DDT e di altri simili pesticidi clorurati.

Un nuovo punto a sfavore del cloro fu offerto dalla guerra nel Vietnam (1963-1975); per snidare i partigiani Vietcong dalla giungla in cui si nascondevano, protetti dalla popolazione locale, gli Stati Uniti per anni hanno distrutto vasti tratti di foresta tropicale irrorandola con grandi quantità di erbicidi, principalmente dell'"efficace" 2,4,5-T. Si trattava di un sale dell'acido triclorofenossiacetico, a sua volta derivato dal triclorofenolo, altro composto clorurato usato per preparare anche prodotti cosmetici come il disinfettante esaclorofene.

Intorno al 1970 cominciarono ad apparire degli studi che rivelarono la comparsa nella popolazione vietnamita, e poco dopo anche nei soldati americani reduci dal Vietnam, varie malattie dovute all'assorbimento di una sostanza fino allora quasi sconosciuta, la diossina (chimicamente 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-para-diossina), un contaminante dell'erbicida.

La diossina tornò all’attenzione di tutto il mondo il 10 luglio 1976 quando, in una piccola fabbrica di triclorofenolo a Meda, a nord di Milano, la Icmesa, si ebbe un'esplosione che fece uscire dal camino una "nube" contenente, in finissima dispersione, alcuni chilogrammi di diossina che ricadde su alcuni ettari del territorio del vicino comune di Seveso, con danni alle persone e morte di numerosi animali. Il nome “Severo” divenne così sinonimo della presenza di fabbriche pericolose, in zone densamente popolate, all'insaputa degli abitanti. L'uso degli erbicidi clorurati e dell'esaclorofene, derivati dal triclorofenolo, fu gradualmente ridotto o vietato, ma il tutto contribuì ulteriormente a mettere in discussione l'utilità del cloro.

Si vide allora che la diossina si formava anche negli inceneritori di rifiuti solidi urbani, a causa di reazioni fra il PVC o altre molecole clorurate con altri componenti dei rifiuti; che la diossina si formava nel corso dell'uso e della distruzione delle traversine ferroviarie di legno impregnate di pentaclorofenolo, e dei bifenili policlorurati (o PCB), i fluidi isolanti elettrici dei trasformatori, che tanto favore avevano fino allora incontrato proprio per la loro resistenza agli incendi. Utili informazioni si trovano nel libro di Marino Ruzzenenti, "Un secolo di cloro e ...PCB. Storia delle industrie Caffaro di Brescia", Milano, Jacabook, 2001.

Negli anni trenta del Novecento Midgley, il grande e controverso inventore, di cui si è parlato qui, scoprì che idrocarburi contenenti cloro e fluoro, i CFC, si prestavano come fluidi frigoriferi, come propellenti per prodotti spray, come solventi industriali, come agenti per il rigonfiamento delle materie plastiche espanse usate come isolanti termici, nelle imbottiture di divani e sedili per autoveicoli, eccetera.

Intorno al 1980 alcuni studiosi osservarono che i clorofluorocarburi, e altri gas clorurati, che si liberano nell’atmosfera, raggiungono la stratosfera e distruggono lo strato di ozono che protegge la Terra dalle radiazioni ultraviolette biologicamente dannose. Attualmente vi sono norme internazionali per il graduale divieto della fabbricazione e dell'uso dei CFC.

Col crescere dell'attenzione per il cloro e i suoi effetti nocivi, sono state condotte indagini più accurate anche nel campo di altri usi del cloro e fu visto che, durante la sbianca della carta e dei tessuti con cloro, si formano composti clorurati che finiscono nelle acque e sono nocivi per la fauna. In molti paesi l'uso del cloro nell'industria della carta è scoraggiato o vietato; alcune cartiere usano biossido di cloro al posto del cloro, altre usano acqua ossigenata o ozono.

La polemica è ormai così vivace che varie associazioni ambientaliste, specialmente Greenpeace, stanno sostenendo una campagna per la diminuzione degli usi del cloro e dei suoi derivati. Naturalmente la grande industria chimica ha mobilitato i suoi scienziati per sventare il pericolo, mettendo in evidenza che, se non si usasse più il cloro, per esempio, nella depurazione delle acque, milioni di persone morirebbero di infezioni intestinali, una tesi che zoppica perché al posto del cloro possono essere usati altri agenti disinfettanti; che gli insetticidi clorurati proteggono milioni di persone dalla malaria.

I difensori d'ufficio dell'industria del cloro (il sito può essere consultato qui) hanno anche scoperto che molte sostanze organiche clorurate, non associate ad attività antropiche, sono estremamente diffuse in natura: si formano nei processi biologici naturali, si trovano nelle emanazioni dei vulcani, eccetera. E' comunque molto probabile che i consumatori trovino, in futuro, un avvertimento che molte merci sono state fabbricate senza impiegare il cloro. Sono così avvertiti che alcuni danni alla salute sono stati evitati e che ci hanno guadagnato la salute dei lavoratori, la loro stessa salute e quella dell'ambiente.

Franz von Soxhlet (1848-1926), persone della chimica

2011 Anno internazionale della Chimica

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

“Estrai il grasso col soxhlet”. Quante volte ci siamo sentiti dire o abbiamo detto questa frase, a cominciare dal Laboratorio del secondo anno d’Università e poi per tutta la vita professionale. Ci si riferiva a quell’ingegnoso apparecchio, in genere di vetro, che consente di estrarre una sostanza da una miscela solida con un flusso continuo di un solvente. Il “soxhlet”, come è ben noto ai chimici, è costituito da un cilindro di vetro posto al di sopra di un pallone contenente il solvente e collegato a un refrigerante. Nel cilindro si pone un “ditale” di carta porosa contenente la miscela solida da cui si vuole estrarre la sostanza cercata. Il solvente evapora dal pallone, entra nel cilindro allo stato di vapore, si condensa nel refrigerante e ricade liquido nel cilindro occupato dal ditale. Il solvente, contenente ora una parte della sostanza da estrarre, dopo avere riempito parte del cilindro, ritorna nel pallone sottostante, come per magia, attraverso un sifone laterale e ricomincia il ciclo di evaporazione, condensazione e estrazione, un’operazione che si osserva con curiosità. Il “soxhlet” viene usato nell’analisi degli alimenti, dei pannelli oleosi, della plastica, dei carboni fossili, del terreno, eccetera (*). Ma perché si chiama così ?

Il merito dell’invenzione va a Franz von Soxhlet, figlio di un belga immigrato nella Moravia, nato nel 1848 a Brno, attuale Repubblica Ceca, e morto a Monaco di Baviera nel 1926. Dopo aver completato gli studi universitari a Lipsia, nel 1873 era stato nominato assistente nell’Istituto di agricoltura e fisiologia animale di Lipsia e, l’anno dopo, nell’Istituto di chimica agraria di Vienna. Dal 1879 al 1913 fu professore di Fisiologia animale e di Industrie lattiero-casearie nella Scuola Tecnica Superiore di Monaco. L’invenzione dell’apparecchio che porta il suo nome risale al 1879 ed è descritta nell’articolo: “Die gewichtanalytische Bestimmung des Milchfattes”, pubblicato in quell’anno nel “Dingler’s Polytechnisches Journal”, pagine 461-465. A dire la verità un apparecchio per l’estrazione continua era stato descritto negli anni 30 dell’Ottocento dal chimico francese Anselme Payen (1795-1861).ma i perfezionamenti di Soxhlet sono stati determinanti per il successo dell’ingegnoso apparecchio.

A Soxhlet si devono numerosi altri contributi. Nel 1865 Louis Pasteur aveva inventato un sistema di sterilizzazione per frenare l’epidemia di vaiolo in Francia a la pastorizzazione era stata applicata a numerosi materiali e alimenti. Nel 1886 Soxhlet la applicò al latte; il processo incontrò dapprima opposizioni, ma presto fu adottato industrialmente. Attento alla difesa della salute dei bambini, nel 1891 Soxhlet inventò anche un semplice dispositivo domestico per sterilizzare il latte: si trattava di un flacone che veniva riempito del latte richiesto per un pasto, veniva fatto bollire per 40 minuti, e poi chiuso ermeticamente e raffreddato. Per questa invenzione è considerato il “riformatore dell’alimentazione infantile”.

Soxhlet descrisse il meccanismo di formazione del burro (1876), descrisse ed analizzò il lattosio, lo zucchero del latte (1880, 1892) e propose (1883) un semplice dispositivo per misurare il contenuto in grassi del latte

Nel 1893 Soxhlet descrisse la differenza fra latte umano e latte di mucca e, nel 1900, studiò il rapporto fra il contenuto di calcio del latte e la comparsa del rachitismo. L’indice SH per la misura dell’acidità del latte e dei prodotti lattiero-caseari deve il nome (1893) a Soxhlet e a Thedoor Henkel (1855-1934): è definito come il numero di ml di idrato sodico 0,25 molare necessari per portare 50 ml di latte a pH 8,3 (indicatore fenolftaleina), così come si chiama “Unità Soxhlet” una misura della capacità di coagulazione del latte in una unità di tempo e a determinata temperatura. Uno degli ultimi lavori di Soxhlet riguardò il rapporto fra il contenuto di ferro del latte e l’anemia infantile. A Soxhlet si attribuisce la separazione e classificazione delle proteine del latte in caseina, albumina, globulina e lattoproteine.

(*) Chiedo scusa per l’autocitazione, ma ricordo di averlo applicato, molti anni fa, per la contemporanea disidratazione e estrazione dei grassi, mediante acetone, da prodotti vegetali per recuperare coloranti liposolubili, o da polpa di pesce fresco o per ottenere farina di pesce essiccata e disidratata. G. Nebbia, "Un nuovo metodo di estrazione dei lipocromi", Olearia, 8, 147-151 (1954); Chemical Abstracts, 49, 417 (1955).

Grazie, Perkin

2011 Anno Internazionale della Chimica

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

La natura è ricchissima, ma anche un po' avara, e anche un po' dispettosa. Mentre gli esseri umani, da sempre, hanno chiesto alla natura una parte delle sue ricchezze per soddisfare le proprie necessità --- per nutrirsi, per curare le malattie, per ottenere le fibre tessili per gli indumenti, per colorare i tessuti, per ricavare papiro e carta su cui depositare i propri pensieri, per fabbricare i metalli, eccetera --- la natura ha distribuito le materie necessarie in maniera bizzarra.

Il chinino per curare la malaria è presente solo in poche piante che crescevano nell'America centrale; un bel colore rosso è stato messo in molluschi che si trovavano lungo le coste siriane; un bel colore blu si poteva trarre dall'indaco ottenibile in poche piante dell'India o dell'Europa meridionale; le migliori fibre tessili erano rappresentate dal cotone indiano e africano; la gomma si poteva ottenere da poche specie di alberi brasiliani. Tante cose utili ottenibili, per secoli, soltanto attraverso traffici e commerci su scala intercontinentale, "globale" come si direbbe oggi.

Traffici che generavano monopoli, speculazioni, conflitti, al punto da spingere gli scienziati a cercare soluzioni alternative: si può ben dire che la scienza e la chimica moderne sono nate per capire come erano fatte le materie e gli oggetti del grande commercio internazionale e per riprodurle per via sintetica, in modo da liberare i paesi occidentali dalla "servitù" dei paesi lontani e coloniali e dall'alto prezzo delle merci di importazione o di monopolio.

La storia della lenta liberazione dalla dipendenza dalle materie naturali è ricca di personaggi, avventure, successi, insuccessi, sorprese. Talvolta i chimici cercavano una sostanza e ne trovavano un'altra, magari di ancora maggiore importanza.

Una delle pagine più affascinanti ha avuto come protagonista un giovanotto inglese, William Perkin (1838-1907) affascinato dalla chimica e dalle sue applicazioni merceologiche. Nei primi decenni dell'Ottocento l'industria era dominata dal carbone e dal ferro. Inghilterra, Germania e Francia erano potenze imperiali grazie alla loro grande produzione di acciaio. Nei primi anni dell'Ottocento era stato scoperto che la produzione di acciaio era migliore se i minerali di ferro erano trattati a caldo con il carbone coke, che si otteneva scaldando ad alta temperatura, in assenza d'aria, il carbone fossile naturale. Durante l'operazione si liberavano sostanze liquide e gassose che lasciavano un residuo sporco nero catramoso, di ben poca utilità pratica.

Con uno spirito che oggi chiameremmo ecologico, la volontà di ricuperare cose utile dalle scorie e dai residui inutili che nessuno sapeva dove mettere, i chimici del tempo avevano scaldato l'inutile catrame ricavandone numerosi prodotti chimici, fra cui anilina, piridina, naftalina, antracene, di struttura abbastanza semplice e suscettibili di trasformazione in moltissime altre sostanze. Gli allievi del grande chimico e cattedratico August Hoffman, a Londra, erano impegnati a trattare questi prodotti per vedere "che cosa succedeva" scaldandoli insieme, ossidandoli, trattandoli con acido solforico, o nitrico, o cloridrico. L'obiettivo era riprodurre sinteticamente le sostanze naturali e qualche volta l'operazione riusciva, altre volte saltavano fuori sostanze del tutto nuove. Fra queste ultime, talvolta alcuni dei prodotti sintetici "servivano"a qualcosa. In una delle sue manipolazioni il giovane Perkin, che stava cercando di ottenere la chinina, il prezioso composto naturale contro la malaria, ottenne una massa di colore nerastro, poi frazionata fino ad arrivare ad una sostanza che si fissava sul cotone e lo colorava in colore lilla molto meglio di quanto facessero i coloranti del tempo.

Tanto per cominciare brevettò subito la scoperta, nell'agosto del 1856, appena diciottenne, poi fece provare il nuovo colorante, che chiamò malveina perché aveva il colore dei fiori di malva, da una tintoria industriale di cotone, poi, costatato che il nuovo colorante era davvero buono, si mise a produrlo in proprio. Il grande Hoffman perse un assistente, ma la società mondiale guadagnò un grande chimico che per tutta la lunga vita, piena di soldi e di successi, continuò a lavorare e a fare scoperte nella chimica sintetica.

La affascinante storia è raccontata nel libro di Simon Garfield: "Il malva di Perkin: storia del colore che ha cambiato il mondo" (Garzanti, 2002), che si legge come un romanzo. La rivoluzione chimica del XIX secolo, cominciata con Perkin, ha cambiato il mondo anche in senso politico. I paesi che avevano il monopolio dei coloranti, della gomma, delle sostanze medicinali, tratti dalla natura sono stati investiti da profonde crisi economiche; la rivoluzione per l'indipendenza dell'India coloniale è stata provocata, fra l'altro, dal fatto che l'Inghilterra, il paese dominante, con le sue industrie sintetiche avevano gettato nella miseria i contadini che coltivavano le piante da indaco.

La storia di Perkin suggerisce anche un messaggio di speranza e di coraggio: la conoscenza, l'osservazione del mondo e della natura, le scoperte di cose utili per gli esseri umani, sono aperte a tutti, oggi molto più che in passato. Il progresso tecnico-scientifico è nelle mani dei cattedratici universitari, ma è accessibile anche a persone intraprendenti e coraggiose e la natura è oggi, ancora più che in passato, una inesauribile miniera di materiali che possono liberare gli esseri umani dalla fame, dalle malattie, dalla povertà. Ai più giovani lettori rivolgo un invito a guardare a Perkin e a chiedersi: "potrei essere anch'io come lui" ? Il mondo è così ricco di cose sconosciute che vi assicuro che la risposta è "si, potrei anch'io".

Justus von Liebig

2011 Anno internazionale della chimica

Chimica News, n. 33, 16-18 (settembre 2010); in Inquinamento, 52, (126), settembre-ottobre 2010

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L’anno venturo 2011 è stato dichiarato “anno internazionale della chimica” e segue l’altro ”anno della chimica” proclamato in Germania nel 2003 in occasione del bicentenario della nascita di Justus von Liebig (12 maggio1803 - 18 aprile1873), chimico e professore universitario, una persona e uno studioso sotto molti aspetti straordinario.

Nato in una famiglia di modeste condizioni Liebig, per quanto si sa, fu uno scadente scolaro; era figlio di un droghiere e ben presto si mise a bazzicare con le sostanze del retrobottega del padre e mostrò una passione grandissima per la chimica e le sue reazioni. Nel 1826, a ventitre anni, fu chiamato ad insegnare nell'Università di Giessen, dove rimase fino al 1852 quando, ormai celebre internazionalmente, fu chiamato all'Università di Monaco dove rimase fino alla morte, nel 1873. Fu nominato barone nel 1845.

Sono state fondamentali le sue ricerche di chimica analitica in cui perfezionò i metodi per l'analisi della composizione elementare delle sostanze organiche. Il refrigerante ad acqua corrente per condensare composti volatili porta ancora oggi, in gergo, il nome di Liebig. Il suo dispositivo per assorbire su potassa caustica l'anidride carbonica che si libera dalla combustione delle sostanze organiche --- il Kaliapparat --- è diventato dispositivo standard dell'analisi chimica e fu assunto come "logo" dall'American Chemical Society.

Liebig condusse ricerche sul processo di fermentazione e sui lieviti anche in polemica con Pasteur. Così come fu talvolta in polemica con altri studiosi del suo tempo. Altre ricerche riguardarono i derivati dell'acido fulminico HCNO, usati come detonatori per esplosivi, il cloralio (dell'idrato di cloralio riconobbe il potere sonnifero), il cloroformio, la struttura di alcuni amminoacidi, e molti altri argomenti.

Liebig ha condotto le sue ricerche con grande attenzione per i problemi concreti, quotidiani, umani e sociali. Capì che la rivoluzione industriale stava portando ad un aumento della popolazione e che una parte delle classi povere avrebbero dovuto fare i conti con la scarsità degli alimenti. Non si dimentichi che le sue ricerche degli anni trenta dell’Ottocento si svolgono appena trent'anni dopo la pubblicazione del saggio di Malthus e nel pieno delle polemiche che tale saggio destò in tutto il mondo. Liebig pensò allora che sarebbe stato importante aumentare la produzione agricola e si dedicò allo studio del meccanismo con cui i vegetali "si nutrono". I rapporti fra chimica inorganica e chimica delle piante furono il tema del suo diploma di dottorato ad Erlangen il 21 giugno 1823.

Capì che la crescita dei vegetali dipendeva dall'assorbimento dall'"ambiente" circostante dell'anidride carbonica, dell'acqua e di sostanze azotate. Nelle sue prime pubblicazioni sostenne che le piante assorbono azoto dall'ammoniaca presente nell'aria e questa ipotesi, sbagliata, destò vivaci polemiche. Poco dopo (circa 1845) corresse questa prima tesi e chiarì che le piante ricavano l'azoto da sostanze inorganiche presenti nel terreno e solubili in acqua, in particolare dai nitrati. E inoltre che le piante hanno bisogno di fosforo che pure assorbono dal terreno, a condizione che esso contenga fosfati solubili in acqua. Fondamentale è l'osservazione secondo cui ogni pianta ha bisogno, ogni anno, di una certa quantità di vari elementi nutritivi; la crescita è perciò impedita o rallentata se la concentrazione nel terreno di anche uno solo degli elementi nutritivi è inferiore alla soglia minima della necessità della pianta; è questa la "legge del minimo" che introduce, implicitamente, il concetto di "limite alla crescita". L'aumento della produzione vegetale richiedeva quindi l'aggiunta al terreno di sali inorganici contenenti azoto e fosforo.

Per la diffusione internazionale di queste idee fu fondamentale il suo libro "La chimica (organica) e il suo impiego in agricoltura e fisiologia", 1840, 1842, traduzione inglese nel 1840, francese nel 1841, italiana nel 1842, spagnola nel 1845. Nel 1845 tenne a Glasgow una conferenza sull'"invenzione" dei concimi artificiali, pubblicata in inglese a Londra, in tedesco nel 1846 e, nello stesso anno, in italiano a Torino e in francese a Parigi.

Liebig insistette comunque sull'importanza della materia organica nel terreno e sulla necessità di conservarne il contenuto di humus e anzi di arricchirlo mediante concimi organici, anticipando in questo molti dei principi della agricoltura "organica", in un corretto equilibrio fra i concimi artificiali e quelli naturali.

L'azoto necessario per la nutrizione vegetale, da addizionare per aumentare le rese agricole, poteva essere ricavato dai grandi giacimenti di guano e di nitrato di sodio esistenti nel Perù e nel Cile: la pubblicità ricevuta dalle scoperte di Liebig avviò l'estrazione su scala industriale e il trasporto in Europa e nel Nord America del nitrato cileno che divenne, per alcuni decenni, l'unica materia prima per i concimi (e per gli esplosivi). La scoperta provocò la nascita di una industria mineraria cilena, in condizioni di monopolio; il governo cileno applicò delle imposte sulle esportazioni (anticipazione di quanto sarebbe successo nel secolo successivo per il petrolio). Per la conquista dell'altopiano di Atacama e del porto di Tacna e Arica fu combattuta la grande "guerra del Pacifico" (1879-1884) fra Cile, Bolivia e Peru. Questi eventi sono stati ricordati in questa rivista: Chimica News, n. 25, 40-42 (novembre 2008), Suppl. Inquinamento, 50, (105), novembre 2008.

Per quanto riguarda la possibilità di produrre concimi fosfatici, Liebig sapeva che esistevano grandi disponibilità di fosfati; le ossa sono costituite da fosfato di calcio; il fosforo era presente nei giacimenti di ferro della Lorena; grandi giacimenti di fosfati minerali esistevano nel Nord Africa e nel Nord America. I fosfati di calcio presenti in natura sono però insolubili in acqua mentre Liebig aveva spiegato che le piante possono assorbire il fosforo soltanto se i suoi sali sono solubili in acqua. Bisognava quindi solubilizzare i fosfati di calcio e Liebig capì che ciò poteva essere fatto con l'acido solforico che in Europa cominciava ad essere prodotto su scala industriale utilizzando lo zolfo della Sicilia. Anche di questo si è parlato più estesamente in questa rivista: Chimica News, n. 30, novembre 2009, p. 18-10; Inquinamento, 51, (120), novembre/dicembre 2009.

In una delle sue "lettere", di cui parleremo, nella undicesima (edizione tedesca del 1865), scrisse che lo sviluppo economico di un paese si misura sulla base della quantità di acido solforico che consuma. (anticipando, con questa affermazione, l’idea che sarebbe stata importante in seguito, di una misura "fisica" e non solo monetaria, dell'importanza economica di un paese). Per sottolineare l'importanza dell'industria chimica, nella stessa lettera, poco prima, aveva indicato nella quantità di sapone prodotto un indice della "civiltà" di un paese.

Altri studi "merceologici" di Liebig riguardarono la produzione di esplosivi, l'estrazione del sale e dei sali potassici, la produzione e l'uso di metalli preziosi, fra cui il platino come catalizzatore, un processo di argentatura degli specchi, l'uso del pirogallolo come sviluppatore fotografico, le proprietà delle leghe ferro-nichelio.

Liebig riconobbe il valore nutritivo delle proteine della carne. Le sue ricerche sono contenute, fra l'altro, nel volume: "Chemische Untersuchung uber das Fleisch und seine Zubereitung zum Nahrungsmittel", pubblicato ad Heidelberg nel 1847, oltre che in numerose delle "Lettere". I grandi allevamenti del bestiame si trovavano però in terre lontane, per esempio nell'America meridionale, e il trasporto della carne in Europa, con le lente navi del tempo, prive di frigoriferi, comportava grandi difficoltà ed elevati costi. Partendo da tali osservazioni Liebig pensò che un miglioramento dell'alimentazione in Europa si sarebbe potuto avere se dalla carne, nei luoghi di allevamento, fosse stato possibile ricavare un "brodo" concentrato sotto forma di "estratto". L'osservazione riscosse l'attenzione dell'ingegnere tedesco Georg Giebert che si trovava in Uruguay e che si recò a Monaco da Liebig chiedendogli l'autorizzazione ad applicare la sua scoperta in una fabbrica in Uruguay, a Fray Bentos, allora piccolo porto sul fiume Uruguay, al confine fra Uruguay e Argentina.

La produzione industriale cominciò nel 1862 (dal 1865 "Liebig's Extract of Meat Company"): la carne degli animali macellati veniva cotta con acqua e il “brodo” risultante veniva concentrato e risultava ricco di sostanze azotate, fra cui la creatinina, e fosfatiche. La compagnia Liebig costruì successivamente vari stabilimenti in vari paesi, una grande multinazionale che distribuiva l'"estratto di carne" in tutto il mondo. E' esistita anche una Compagnia Liebig in Italia, poi acquistata dalla Agnesi e poi dalla Colussi. L’estratto di carne Liebig è ancora in commercio e porta sull’etichetta la firma, con gli ottocenteschi svolazzi, di Liebig. La popolarità dell'estratto di carne fu dovuta anche al fatto che, dal 1873, agli acquirenti delle confezioni venivano regalate delle "figurine" di cui sono state stampate oltre 1800 serie (di sei figurine ciascuna) in molte lingue. La società Liebig produceva anche estratti vegetali e "dadi per brodo". Le storie dell'estratto di carne e della società Liebig si trovano nel sito Internet www.anglo.8m.com . A Fray Bentos ci sono attive iniziative di archeologia industriale per salvare la storica fabbrica.

Sempre nel campo del miglioramento dell'alimentazione umana Liebig sostenne l'utilità del pane integrale, propose alcuni integratori del latte materno e inventò il lievito artificiale costituito da una miscela di bicarbonato di sodio e fosfato monocalcico; per contatto con acqua sviluppa anidride carbonica. Per questa importante invenzione, che consentì di migliorare la qualità del pane anche per i soldati in guerra --- e nella metà dell'Ottocento di guerre non ne mancarono certo --- Liebig non guadagnò niente. Fece con essa invece fortuna uno dei suoi allievi, l'americano Eben Norton Horsford (1818-1893) che, tornato negli Stati Uniti, si dedicò alla produzione industriale del lievito artificiale e divenne milionario.

Oltre che sperimentatore Liebig fu un grande divulgatore. I risultati delle sue ricerche scientifiche apparivano nelle riviste specialistiche e, contemporaneamente, in numerosi libri alcuni scientifici, altri "popolari", come i trattati di chimica. L'attenzione mondiale per Liebig e per i suoi scritti era così grande che le sue opere venivano tradotte quasi immediatamente in molti paesi. Liebig fu il "curatore", dal 1831, della rivista scientifica che sarebbe poi diventata, nel 1840, gli "Annalen der Chemie und Pharmazie" (dopo la sua morte, dal 1873, dal volume 169, "Justus Liebig Annalen der Chemie"). Insieme ad altr, Liebig curò, dal 1847 al 1856, la pubblicazione dello "Jahresbericht ... der ...Chemie".

Nel 1841 l'editore dell'Augsburger “Allgemeine Zeitung”, la “Gazzetta” quotidiana di Augusta, gli chiese di esporre la chimica ad un pubblico più vasto in una serie di articoli nel suo giornale. La prima delle "Chemische Briefe" fu pubblicata il 13 settembre 1841, seguita da altre sei nello stesso anno. Gli articoli ebbero tanto successo che Liebig decise di raccoglierli in volume nel 1844. La prima edizione del 1844 conteneva 26 "lettere"; il loro numero aumentò fino a 50 nella quarta edizione del 1859, che occupava due volumi. Il testo tedesco della "sesta" edizione del 1865 si trova nel sito Internet http://www.liebig-museum.de/justus_liebig/chemische_briefe/. Una traduzione inglese col titolo: "Familiar Letters on Chemistry", apparve a Londra nel 1843 con sedici lettere. Il testo inglese di tali lettere si trova nel sito Internet www.ul.ie/~childsp/liebig/

Le ricerche e gli scritti di Liebig ebbero una grande risonanza anche in Italia. La prima traduzione italiana delle "Lettere" apparve nel 1844 a Torino; la traduzione delle cinquanta lettere della quarta edizione tedesca apparvero nello stesso 1859 a Napoli. Liebig tenne una fittissima corrispondenza con moltissimi studiosi internazionali. Fra gli italiani si possono ricordare le lettere con Ascanio Sobrero (1812-1888, lo scopritore della nitroglicerina, il quale aveva studiato con Liebig), Cannizzaro e altri. Le lettere con Sobrero sono pubblicate nel libro: E. Molinari e F. Quartieri, "Notizie sugli esplodenti in Italia", Milano, Società Prodotti Esplodenti, Milano, Hoepli, 1913. Alcune lettere con studiosi italiani sono conservate a Roma nell'archivio dell'Accademia delle scienze detta dei XL. Nel 1854 Liebig fu insignito del titolo di Cavaliere dell'Ordine di S. Maurizio e Lazzaro.