martedì 30 novembre 2010

CO: l'assassino dei poveri

2011 Anno internazionale della chimica

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 30 novembre 2010

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

La cronaca quotidiana contiene spesso notizie dolorose di persone che muoiono per avvelenamento “da gas”: si tratta in genere di poveretti che cercano di scaldarsi con un braciere o un fornello a legna o carbone coprendo il carbone con la cenere per fare durare il calore più a lungo --- ce ne sono ancora nella nostra società opulenta, se solo si vuole guardare al di fuori delle luci delle strade e dei negozi --- oppure di anziani che si scaldano con qualche stufa a carbone o anche a gas e tengono le finestre chiuse per non disperdere il calore. In genere ciò avviene in vecchi edifici privi di camino o con il camino intasato, per cui i gas che si liberano nella combustione si accumulano nella stanza e uccidono chi vi abita. Fra i vari gas che si formano nella combustione, l’”assassino dei poveri” è il velenoso ossido di carbonio, il “fratello minore”, quello malvagio, della ben più nota anidride carbonica.

L’anidride carbonica, un gas anche lei, non è velenosa, anche se, quando finisce nell’atmosfera, influenza negativamente l’ambiente modificando il clima, tanto che i vari paesi stanno discutendo come limitarne le emissioni nell’atmosfera in una grande conferenza che si è aperta proprio ieri a Cancun nel Messico (vedremo fra un paio di settimane come va a finire). Sia l’anidride carbonica sia l’ossido di carbonio sono i prodotti della combustione, cioè della combinazione con l’ossigeno dell’aria, del carbonio, l’elemento più importante della natura; il carbonio, sotto forma di anidride carbonio si combina con l’acqua per produrre i vegetali; il carbonio presente negli alimenti o nei combustibili si combina con l’ossigeno liberando il calore che permette la vita o fa funzionare le macchine o scalda gli edifici.

Quando l’ossigeno è abbondante, come avviene generalmente, il carbonio lega a se due atomi di ossigeno e si trasforma in anidride carbonica CO2; se l’ossigeno è scarso il carbonio è capace di legare a se un solo atomo di ossigeno e si forma l’ossido di carbonio CO, il quale a sua volta è un combustibile perché, in presenza di altro ossigeno, brucia a sua volta con formazione di CO2. L’ossido di carbonio è entrato di prepotenza nella storia umana alla fine del Settecento quando si è scoperto che, scaldando il carbone di legna o il carbone fossile in presenza di poca aria, si forma una miscela di sostanze volatili fra cui ossido di carbonio, idrogeno e alcuni altri gas. Archibald Cochrane (1748-1831), che fabbricava catrame scaldando il carbon fossile ad alta temperatura, in una storta senza aria, intorno al 1790 si rese conto che il sottoprodotto gassoso, contenente, appunto, ossido di carbonio, che andava perduto, bruciava con una fiamma luminosa; poteva così essere recuperato (altro esempio di recupero commerciale di un rifiuto) e utilizzato per l’illuminazione delle strade e poi degli edifici.

Nel 1792 William Murdoch (1754-1839) illuminò la propria casa col gas di carbone prodotto a 25 metri di distanza. Nel 1801 Philippe Lebon (1767-1804) portò il gas illuminante con una tubazione nel giardino e all'interno dell'albergo Seignelay di Parigi; nel 1805 fu illuminata a gas una fabbrica a Manchester. Nel dicembre 1807 una parte della strada Pall Mall di Londra fu illuminata con lampioni a gas; nel 1815 la rete di distribuzione del gas illuminante a Londra era lunga 25 chilometri e nel 1819 pare fosse di 350 chilometri. Da allora in tutta Europa e nel Nord America si sono moltiplicate le “Officine del gas” spesso chiamate “gasometri”, contraddistinte da un grande serbatoio cilindrico nel quale veniva accumulato il gas previamente depurato. Il Gasometro di Bari, ora smantellato, era in Via Napoli. Nella maggior parte delle città il gas illuminante, un combustibile gassoso, comodo da usare, veniva distribuito, mediante tubazioni, nelle case dapprima per illuminazione, poi come gas per riscaldamento e cucina, e questo fino agli anni cinquanta del Novecento, quando fu sostituito dal gas metano.

Il gas illuminante e da cucina portava luce e calore nelle case, ma anche il velenoso ossido di carbonio e da allora è cominciata la serie di incidenti e avvelenamenti dovuto a perdite di gas dalle tubazioni e dagli apparecchi domestici. La tossicità dell’ossido di carbonio è dovuto alla facilità con cui si lega all’emoglobina del sangue formando un composto che impedisce il normale trasporto dell’ossigeno nelle vene; chi lo respira, anche in basse concentrazioni, non se ne accorge perché l’ossido di carbonio è inodore e provoca un lento insensibile stordimento e poi la morte.

L’ossido di carbonio si forma anche durante la combustione della benzina e del gasolio nei motori a scoppio che funzionano con una rapidissima successione di combustioni, entro il cilindro, del carburante; in queste condizioni il carbonio presente nei carburanti non riesce a combinarsi tutto in maniera completa con l’ossigeno. Si formano così, insieme all’anidride carbonica, anche piccole ma apprezzabili quantità di ossido di carbonio che finisce nell’aria esterna; da qui la necessità di dotare gli autoveicoli di catalizzatori che bruciano l’ossido di carbonio trasformandolo in anidride carbonica e l’obbligo di effettuare annualmente il controllo della concentrazione dell’ossido di carbonio nei gas di scarico quando si fa il ”bollino blu”. Se il motore a scoppio di un’automobile funziona in uno spazio limitato, come un garage a porte chiuse, la concentrazione di ossido di carbonio può diventare presto così elevata da uccidere.

Qualche volta si verificano dei casi di avvelenamento da ossido di carbonio, anche quando si usa come combustibile il metano, che non è tossico, se i gas di combustione restano all’interno delle stanze, se non si ha cura di tenere puliti i camini e di ricambiare l’aria nelle stanze. Ma la maggior parte dei casi di avvelenamento si verificano, come si è detto, nelle abitazioni o nei rifugi dei poveretti che hanno più freddo e non sanno niente di chimica. Forse bisognerebbe dargli uno sguardo quando usciamo dalle nostra case calde e sicure.

sabato 27 novembre 2010

Trecentocinquanta

2010 Anno Internazionale della Chimica

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 17 agosto 2010

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Gli eventi di quest’estate confermano l’esistenza di mutamenti climatici dovuti al riscaldamento planetario. Devastanti alluvioni nell’Europa centrale; più a Oriente, una eccezionale siccità ha provocato incendi di boschi e di giacimenti di torba in Russia; ancora più a Oriente, alluvioni nell’Asia meridionale e in Cina. Piogge intense, alluvioni e siccità si sono già verificati nei decenni e secoli passati, ma mai su una scala così vasta e con così grande frequenza, proprio come le previsioni avevano indicato.

lunedì 15 novembre 2010

Giacomo Fauser (1892-1971) e Luigi Casale (1882-1927): persone della chimica

2011 Anno internazionale della Chimica

Giuseppe Trinchieri

Alla fine della I guerra mondiale esistevano nel mondo solo due impianti efficienti per l’ammoniaca sintetica e precisamente quelli di Oppau e Merseburg. Già durante la guerra furono fatti, in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, dei tentativi per effettuare la sintesi industriale dell’ammoniaca, ma con scarsi risultati. Dopo l’armistizio vi fu una corsa per emulare i successi tedeschi. Commissioni di vari Paesi Alleati visitarono gli impianti germanici. Vennero studiati e messi in atto nuovi processi, simili a, o dissimili da, quello di Haber–Bosch.

sabato 23 ottobre 2010

Chi ha dato il nome al bunsen ?

2011 Anno internazionale della Chimica

Chimica News, n. 32, 26-27 (maggio 2010); Inquinamento, 52, (124), maggio 2010

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Era molto freddo l’inverno del 1945 e si gelava nel laboratorio di Bologna nel quale ho iniziato la mia avventura di chimico. Per scaldare un poco la stanza mi dissero di mettere un mattone sul “treppiede” e di scaldarlo col bunsen. Imparai così che il treppiede era un vero e proprio treppiede di ferro che sorreggeva un grande anello pure di ferro, su cui si poneva una reticella amiantata (era così, allora) destinata a sostenere dei recipienti di vetro, detti “palloni” o bevute”, contenenti il liquido da riscaldare; imparai inoltre che un mattone è fatto di un materiale refrattario che, una volta scaldato, libera lentamente calore nell’ambiente circostante, cosa che del resto avevo già intuito perché in molte case senza riscaldamento ci si difendeva un poco dal freddo avvolgendo un mattone, scaldato nel camino, in una coperta che veniva poi messa nel letto. Feci infine la conoscenza col “bunsen”, un fornello a gas costituito da un tubicino di ferro verticale la cui fiamma poteva essere regolata, più o meno “calda”, modificando l’afflusso dell’ossigeno dell’aria attraverso una apertura regolabile posta, in basso, nel fornello, vicino al tubo di entrata del gas.

Il “becco bunsen”, come era confidenzialmente chiamato (con sottintese ironie) il fornello, portava il nome di Robert Wilhelm Bunsen (1811-1899), chimico e fisico tedesco, laureato in chimica all’Università di Gottingen a 19 anni. Figlio di una famiglia borghese, il padre era bibliotecario, dal 1930 al 1933 poté frequentare vari laboratori europei e venne a contatto con i chimici illustri del tempo: F.F.Runge (1794-1867), lo scopritore dell’anilina, Justus von Liebig (1803-1873) a Giessen e Eilhard Mitscherlich (1814-1865) a Bonn. Al ritorno in Germania, appena ventiduenne, fu nominato professore a Gottingen, Università che lasciò nel 1836 per occupare la cattedra che era stata di Friedrich Woehler (1800-1882) nell’Università di Kassel.

Doveva essere un po’ inquieto questo Bunsen perché due anni dopo cambiò ancora Università a passò a insegnare a Marburgo dove condusse importanti ricerche sui sali di arsenico. Nel periodo dal 1838 al 1844 condusse ricerche sui gas e studiò il recupero dei gas d’altoforno e dei convertitori della ghisa che fino allora andavano in gran parte perduti. Nel 1843 mise a punto la pila zinco-carbone che porta ancora il suo nome e con l’elettricità così ottenuta produsse per elettrolisi dei rispettivi sali fusi, vari metalli puri fra cui magnesio, alluminio, sodio, calcio, litio. Nel 1852 fu chiamato nell’Università di Heidelberg ad occupare la cattedra che era stata di Leopold Gmelin (1788-1853), e qui finalmente si fermò e rimase ad insegnare fino alla pensione nel 1889. A questo periodo risale l’inizio delle ricerche di fotochimica e spettroscopia dapprima con l’inglese Henry Roscoe (1833-1915), venuto per alcuni anni ad Heidelberg, poi con Gustav Kirchhoff (1824-1887). Per osservare la radiazione di emissione dei metalli Bunsen aveva bisogno di una fiamma ad alta temperatura e incolore in cui porre il campione da analizzare e nacque così il bruciatore che porta il suo nome. Del resto il test alla fiamma è la prima cosa che si impara nel corso che ai miei tempi era chiamato “Esercitazioni di chimica analitica qualitativa del primo anno”.

A dire la verità il “bunsen” ha una storia un po’ complicata; è decritto per la prima volta in un articolo pubblicato da Bunsen con Roscoe nel 1857, ma sembra che fosse usato nel laboratorio già nel 1855 e che sia stato costruito da Peter Desdega, il meccanico del laboratorio (chi non ricorda quelli che erano una volta i preziosi “tecnici” che sapevano fare tutto, dal soffiare il vetro allo sbloccare viti arrugginite), il quale a sua volta applicò alle necessità di laboratorio i perfezionamenti delle lampade a olio e a gas che erano già noti. Nel 1780 il fisico e inventore svizzero Aimé Argand (1750-1803) aveva migliorato le prestazioni delle lampade ad olio circondando la lampada con un tubo, aperto alle due estremità, attraverso il quale l’aria aspirata dal basso portava ossigeno alla fiamma rendendola più luminosa. Qualcosa del genere, applicato alle necessità di laboratorio, aveva descritto nel 1827 l’inglese Michael Faraday (1791-1867) nel suo noto trattato sulle “manipolazioni chimiche”, sulla strumentazione di laboratorio. La novità del contributo di Desaga fu contestata da altri inventori come Julius Pintsch (1815-1884) nel 1955 e R.W.Elsner nel 1856, e Desaga fu costretto a rivendicare i suoi meriti in un articolo pubblicato nel 1857.

Non risulta che ci siano state liti giudiziarie e si sa solo che il figlio di Desaga aprì una ditta per la fabbricazione dei bruciatori che si diffusero in tutto il mondo. Il loro nome però resta legato a Bunsen che ne fece buon uso nelle numerose ricerche di spettroscopia per le quali costruì vari spettroscopi e poté descrivere le righe di emissione di molti elementi. Con questo metodo scoprì, insieme a Kirchhoff, nel 1861 gli elementi cesio e rubidio. Quante persone e quante storie intorno ad un tubicino di ferro !

martedì 19 ottobre 2010

Camillo Porlezza (1884-1972) - Persone della Chimica

2011 Anno internazionale della chimica

Paolo Berbenni

Non sono numerosi i chimici che si dedicarono allo studio delle acque minerali e termali e dei fanghi terapeutici. Occupa un posto di privilegio il Prof. Camillo Porlezza.

Nato a Bergamo il 2 dicembre 1884,si laureò a Pisa nel 1908 in chimica. Subito nominato assistente presso l’Istituto di chimica generale della stessa città, presa la libera docenza in Chimica generale nel 1913, venne chiamato nel 1929 alla cattedra di chimica generale che tenne per 26 anni; nel 1939 venne inviato ad insegnare per un triennio Chimica fisica e Chimica superiore nella Università del Brasile a Rio de Janeiro su richiesta di quel governo. Nel 1948, su invito del governo peruviano, si recò là per un periodo di quattro mesi per studi e conferenze su sorgenti idrotermali di quelle regioni. Prima di essere chiamato in cattedra fu vincitore, nel 1925,del concorso per professore di chimica alla Accademia navale di Livorno e nel 1926 nominato professore di chimica farmaceutica. Nel periodo dal 1929 al 1939 (salvo l’interruzione di un anno) è stato Preside della Facoltà di Farmacia. Nel 1955 fu collocato fuori ruolo e nel 1960 a riposo.

mercoledì 13 ottobre 2010

Stanley Miller (1930-2007): persone della chimica

2011 Anno internazionale della Chimica

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L’ambiente è il grande palcoscenico in cui si svolge il dramma della vita. Ma che cosa è la vita ? Nessuno è in grado di dare una ragionevole risposta. Se ponete la domanda a biologi, fisici, sociologi, educatori, cultori di etica, religiosi, eccetera, avrete tante risposte differenti, ma nessuna definitiva. Se ponete la domanda a un chimico questi vi dirà che bisogna partire dagli elementi della tabella di Mendeleev: il primo è l’idrogeno, e questo c’è sempre in qualsiasi forma di vita, come ci sono sempre gli elementi che si trovano poco dopo: il carbonio e poi l’azoto e poi l’ossigeno e, più avanti, negli esseri viventi vegetali e animali, gli elementi sodio, zolfo, eccetera. Nelle infinite forme in cui si manifesta la vita si trovano tutti gli elementi noti. Ma il vero problema è come e perché questi elementi si sono aggregati “all’inizio”, formando qualcosa che fosse capace di riprodursi; “un giorno” qualcosa o qualcuno “deve” essere intervenuto a predisporre le prime sintesi chimiche, un dio o il caso o chi volete.

Di certo “all’inizio”, questa scheggia di rocce calde che chiamiamo Terra, quando è stata lanciata nello spazio, aveva forma e composizione del tutto diverse da quelle che conosciamo noi oggi. Nel 1924 un biologo russo, Alexandr Oparin (1894-1980), scrisse un libro intitolato: “L’origine della vita”, nel quale indicava che la Terra all’origine era circondata da una atmosfera ricca di idrogeno. Questa atmosfera “riducente” conteneva idrogeno gassoso e poi metano (cioè idrogeno combinato col carbonio), ammoniaca (cioè idrogeno combinato con azoto), vapore acqueo (cioè idrogeno combinato con ossigeno). Dai gas dell’atmosfera primitiva, per successive reazioni chimiche, si sarebbero formate molecole organiche e poi acqua liquida che avrebbe cominciato a “piovere” per milioni di anni, sulla superficie terrestre, raffreddandola e generando grandi mari; le piogge avrebbero trascinato le molecole organiche nei mari che si sarebbero trasformati in una specie di “brodo prordiale” e qui, attraverso innumerevoli altre sintesi chimiche, si sarebbero formate molecole capaci di autoriprodursi, cioè quella che noi chiamiamo “vita”.

Se le cose fossero andate così, ci sarebbe voluto solo un po’ di pazienza per assistere alla formazione di molecole sempre più complesse come quelle che si trovano nei chicchi del grano, nella carne degli animali, nelle ali delle farfalle, e poi l’ossigeno che troviamo oggi nell’aria insieme all’azoto gassoso. E la natura, in quattromila milioni di anni, avrebbe avuto a disposizione tempo e pazienza in abbondanza. Il libro russo di Oparin rimase sconosciuto in Occidente per molti anni, ma nel frattempo, indipendentemente il biologo inglese J.B.S. Haldane (1892-1964) aveva avanzato la stessa ipotesi. Ma sarà poi andato proprio così ?

La risposta è stata data dal chimico americano Stanley Miller (1930-2007) che, con un celebre esperimento in laboratorio, mostrò che le ipotesi di Oparin e Haldane avevano un fondamento reale, un “colpo” che qualsiasi chimico avrebbe desiderato fare almeno una volta nella propria carriera. Miller aveva 23 anni quando, da studente nel laboratorio chimico dell’Università di Chicago, ebbe l’incarico da parte del suo professore, il premio Nobel per la chimica Harold Urey (1893-1981), di condurre un esperimento per vedere se, trattando con scariche elettriche una miscela di gas come quella ipotizzata per l’atmosfera primitiva, si sarebbero formate davvero delle molecole organiche. Le scariche elettriche avrebbero simulato quelle che certamente attraversavano l’atmosfera primitiva sotto forma di lampi.

Miller pose, in un “pallone”, così si chiamano i grandi recipienti sferici di vetro usati nei laboratori chimici, una miscela di idrogeno, ammoniaca, metano e vapore acqueo e fece passare, attraverso questa miscela, per una settimana di seguito delle scariche elettriche a 60.000 volt. Il pallone conteneva acqua che simulava l’oceano primitivo e che raccoglieva e “lavava” i gas della reazione. La storia racconta che Miller vide formarsi, sulle pareti interne del “pallone” di vetro, una specie di patina solida che fu analizzata e che si rivelò effettivamente costituita da molecole “organiche”, cioè contenenti, combinati insieme, gli elementi carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto, alcune addirittura in forma di amminoacidi molto semplici (glicocolla, alanina, acido aspartico); gli amminoacidi sono le pietre costitutive fondamentali di tutte le proteine, cioè della vita. I risultati furono descritti nell'articolo "Production of Amino Acids Under Possible Primitive Earth Conditions", pubblicato dalla rivista Science, 117(3046), 528-529 (1953).

Non era “la vita”, le molecole non erano in grado di riprodursi, ma l’esperimento mostrò che, effettivamente, da pochi semplici gas, potevano formarsi i mattoni fondamentali delle molecole presenti in tutti i viventi. L’esperimento di Miller ebbe una enorme risonanza. Adesso si trattava di vedere se e in quali condizioni, le semplici molecole organiche formate dai gas dell’atmosfera primitiva avrebbero potuto “ingrandirsi”, trasformarsi, sempre con mezzi chimici; ne nacque una speciale disciplina, la “chimica planetaria”, che per alcuni anni mobilitò diecine di studiosi. Le molecole semplici furono sottoposte a reazioni a freddo, a caldo, in acqua, sulle rocce delle terre emerse dove forse il “brodo primordiale” avrebbe potuto trascinarle, in presenza di speciali minerali che certamente esistevano nei continenti primitivi.

Per alcuni anni queste ricerche ottennero finanziamenti dalle agenzie spaziali perché forse avrebbe potuto dare qualche indicazione sull’origine di alcune semplici molecole organiche che apparivano presenti in lontani corpi celesti; ospitavano anch’essi qualche forma di vita ? Gli esperimenti d’altra parte destarono violenti dibattiti; in questa direzione si poteva pensare ad una vita senza bisogno di “un creatore” al di fuori della chimica e dell’elettricità; i critici misero in evidenza che per via chimica non si otteneva niente che giustificasse la formazione di molecole complesse e comunque capaci di riprodursi. Poi l’attenzione è stata attratta da altre cose, ma ricordo che, a me laureato in chimica da poco, questi esperimenti fecero grandissima impressione e destarono un po’ di invidia per la bravura di un mio quasi coetaneo.

E Miller ? Ottenne una laurea in chimica nel 1951, un dottorato in chimica a Chicago nel 1954 e ha poi insegnato per molti anni chimica e biochimica nell’Università della California a San Diego. Il suo nome resta legato per sempre ai suoi esperimenti giovanili che costrinsero brutalmente gli scienziati e gli intellettuali a guardare in faccia un inedito aspetto del problema della vita.

Vita morte e miracoli dei cloroderivati

2011 Anno internazionale della Chimica

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Il cloro è, si può dire, nato come soluzione ad un problema di inquinamento, lo smaltimento dell'acido cloridrico, il nocivo sottoprodotto della produzione del carbonato sodico col processo Leblanc.

Strano destino, quello del cloro e dei suoi derivati: salutati, alla loro nascita, come scoperte rivoluzionarie e liberatorie, hanno spesso svelato, dopo qualche tempo, di nascondere delle trappole tecnologiche da cui è stato faticoso e costoso uscire, come racconta il libro di Valeria Spada e Caterina Tricase, "Crescita e declino del sistema cloro", Torino, Giappichelli, 2000.

Non c'è dubbio che, come disinfettante delle acque, il cloro ha contribuito a debellare molte malattie portate da batteri e virus; solo dopo un secolo si è visto che il cloro provocava anche la formazione di sostanze indesiderabili. Uno dei primi derivati organici del cloro fu il cloroformio, salutato con entusiasmo come sostituto dell’infiammabile etere per le sue proprietà narcotiche ed anestetiche nelle operazioni chirurgiche; solo più tardi sarebbe stato scoperto che il cloroformio è velenoso e ne sarebbe stato vietato l'uso in anestesia.

I composti organici del cloro sono in genere non infiammabili e la scoperta che molti derivati del cloro --- trielina, tetracloruro di carbonio, percloroetilene, eccetera --- sono buoni solventi dei grassi permise di sostituire altri solventi infiammabili, come il solfuro di carbonio e la benzina, usati nell'industria olearia. Anche di questi, più tardi, è stata scoperta la tossicità.

Il cloro e i suoi derivati cominciarono ad avere cattiva stampa durante la prima guerra mondiale (1914-1919). I tedeschi, che avevano in quel tempo la più progredita industria chimica del mondo, usarono il cloro come gas asfissiante già nel 1915 a Ypres, nel Belgio. Si vide ben presto, però, che, se cambiava il vento, il cloro poteva intossicare gli stessi soldati tedeschi che lo avevano lanciato; il "perfezionamento" arrivò subito sotto forma di fosgene COCl2 (usato dai francesi a Verdun nel febbraio 1916) e di iprite (diclorodietilsolfuro, [CH2CH2Cl)2S], altro composto clorurato, usato dai tedeschi contro i franco-italiani a Ypres nel 1917. L'uso dei gas asfissianti sollevò una protesta generale che portò, nel 1925, al primo trattato che vietò l'uso in guerra di aggressivi chimici; l'iprite fu tuttavia usata dagli italiani durante la guerra contro l'Abissinia nel 1936.

Fra i successi del cloro vi fu la scoperta del cloruro di vinile, un derivato clorurato ottenuto dall'acetilene o dall'etilene, che poteva essere facilmente trasformato in una materia plastica destinata a grandi fortune e ad altrettanto grandi polemiche. La produzione industriale del cloruro di vinile e del cloruro di polivinile (PVC) cominciò nel 1928 negli Stati Uniti e nel 1933 in Germania; la loro fortuna era dovuta al fatto che con il PVC potevano essere fabbricati tubi, lastre, oggetti stampati, sacchetti per imballaggi, rivestimenti per fili elettrici, duraturi, non infiammabili, elastici. Soltanto a partire dagli anni 50 del Novecento è stato scoperto che il cloruro di vinile monomero, la materia prima per le resine PVC, è tossico e cancerogeno e che i manufatti di PVC, quando sono bruciati negli inceneritori di rifiuti, provocano la formazione di acido cloridrico corrosivo e inquinante.

Un altro successo del cloro si ebbe negli anni quaranta del Novecento quando fu scoperto che un idrocarburo clorurato --- il dicloro-difenil-tricloroetano, o DDT, peraltro noto già molti decenni prima --- presentava eccezionali proprietà insetticide. Con massicci impieghi di questa polvere i soldati americani riuscirono a sopravvivere nelle paludi e nelle giungle asiatiche, nelle zone europee infestate dalla malaria, a impedire la diffusione dei parassiti nei campi di prigionia, fra i popoli affamati, nelle città devastate dai bombardamenti.

Già negli anni cinquanta fu però scoperto che il “miracoloso” DDT e altri simili pesticidi clorurati, grazie alla loro eccezionale stabilità chimica, restavano inalterati nel suolo, nei raccolti, negli animali; anzi, essendo solubili nei grassi, passavano attraverso le catene alimentari e furono scoperti addirittura negli oceani lontani dai campi coltivati e dalle zone antropizzate. Ciò indicava che il DDT dai campi e dagli escrementi si diffondeva negli oceani e veniva trasferito da un animale all'altro fino a diventare un contaminante di tutta la biosfera.

Nel 1962 una biologa del Dipartimento dell'Agricoltura americano, Rachel Carson (1907-1964), scrisse un libro-denuncia intitolato "Primavera silenziosa". Il libro spiegava che, se si fosse continuato nell'uso agricolo indiscriminato degli insetticidi clorurati, questi si sarebbero diffusi in tutti gli esseri viventi al punto che un giorno, morti anche gli uccelli, la primavera sarebbe divenuta, appunto, silenziosa. Il libro ebbe un enorme successo e portò rapidamente, nonostante l'irritata opposizione dell'industria chimica e gli innegabili vantaggi di un pesticida efficace e a basso costo, al divieto dell'uso del DDT e di altri simili pesticidi clorurati.

Un nuovo punto a sfavore del cloro fu offerto dalla guerra nel Vietnam (1963-1975); per snidare i partigiani Vietcong dalla giungla in cui si nascondevano, protetti dalla popolazione locale, gli Stati Uniti per anni hanno distrutto vasti tratti di foresta tropicale irrorandola con grandi quantità di erbicidi, principalmente dell'"efficace" 2,4,5-T. Si trattava di un sale dell'acido triclorofenossiacetico, a sua volta derivato dal triclorofenolo, altro composto clorurato usato per preparare anche prodotti cosmetici come il disinfettante esaclorofene.

Intorno al 1970 cominciarono ad apparire degli studi che rivelarono la comparsa nella popolazione vietnamita, e poco dopo anche nei soldati americani reduci dal Vietnam, varie malattie dovute all'assorbimento di una sostanza fino allora quasi sconosciuta, la diossina (chimicamente 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-para-diossina), un contaminante dell'erbicida.

La diossina tornò all’attenzione di tutto il mondo il 10 luglio 1976 quando, in una piccola fabbrica di triclorofenolo a Meda, a nord di Milano, la Icmesa, si ebbe un'esplosione che fece uscire dal camino una "nube" contenente, in finissima dispersione, alcuni chilogrammi di diossina che ricadde su alcuni ettari del territorio del vicino comune di Seveso, con danni alle persone e morte di numerosi animali. Il nome “Severo” divenne così sinonimo della presenza di fabbriche pericolose, in zone densamente popolate, all'insaputa degli abitanti. L'uso degli erbicidi clorurati e dell'esaclorofene, derivati dal triclorofenolo, fu gradualmente ridotto o vietato, ma il tutto contribuì ulteriormente a mettere in discussione l'utilità del cloro.

Si vide allora che la diossina si formava anche negli inceneritori di rifiuti solidi urbani, a causa di reazioni fra il PVC o altre molecole clorurate con altri componenti dei rifiuti; che la diossina si formava nel corso dell'uso e della distruzione delle traversine ferroviarie di legno impregnate di pentaclorofenolo, e dei bifenili policlorurati (o PCB), i fluidi isolanti elettrici dei trasformatori, che tanto favore avevano fino allora incontrato proprio per la loro resistenza agli incendi. Utili informazioni si trovano nel libro di Marino Ruzzenenti, "Un secolo di cloro e ...PCB. Storia delle industrie Caffaro di Brescia", Milano, Jacabook, 2001.

Negli anni trenta del Novecento Midgley, il grande e controverso inventore, di cui si è parlato qui, scoprì che idrocarburi contenenti cloro e fluoro, i CFC, si prestavano come fluidi frigoriferi, come propellenti per prodotti spray, come solventi industriali, come agenti per il rigonfiamento delle materie plastiche espanse usate come isolanti termici, nelle imbottiture di divani e sedili per autoveicoli, eccetera.

Intorno al 1980 alcuni studiosi osservarono che i clorofluorocarburi, e altri gas clorurati, che si liberano nell’atmosfera, raggiungono la stratosfera e distruggono lo strato di ozono che protegge la Terra dalle radiazioni ultraviolette biologicamente dannose. Attualmente vi sono norme internazionali per il graduale divieto della fabbricazione e dell'uso dei CFC.

Col crescere dell'attenzione per il cloro e i suoi effetti nocivi, sono state condotte indagini più accurate anche nel campo di altri usi del cloro e fu visto che, durante la sbianca della carta e dei tessuti con cloro, si formano composti clorurati che finiscono nelle acque e sono nocivi per la fauna. In molti paesi l'uso del cloro nell'industria della carta è scoraggiato o vietato; alcune cartiere usano biossido di cloro al posto del cloro, altre usano acqua ossigenata o ozono.

La polemica è ormai così vivace che varie associazioni ambientaliste, specialmente Greenpeace, stanno sostenendo una campagna per la diminuzione degli usi del cloro e dei suoi derivati. Naturalmente la grande industria chimica ha mobilitato i suoi scienziati per sventare il pericolo, mettendo in evidenza che, se non si usasse più il cloro, per esempio, nella depurazione delle acque, milioni di persone morirebbero di infezioni intestinali, una tesi che zoppica perché al posto del cloro possono essere usati altri agenti disinfettanti; che gli insetticidi clorurati proteggono milioni di persone dalla malaria.

I difensori d'ufficio dell'industria del cloro (il sito può essere consultato qui) hanno anche scoperto che molte sostanze organiche clorurate, non associate ad attività antropiche, sono estremamente diffuse in natura: si formano nei processi biologici naturali, si trovano nelle emanazioni dei vulcani, eccetera. E' comunque molto probabile che i consumatori trovino, in futuro, un avvertimento che molte merci sono state fabbricate senza impiegare il cloro. Sono così avvertiti che alcuni danni alla salute sono stati evitati e che ci hanno guadagnato la salute dei lavoratori, la loro stessa salute e quella dell'ambiente.

Franz von Soxhlet (1848-1926), persone della chimica

2011 Anno internazionale della Chimica

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

“Estrai il grasso col soxhlet”. Quante volte ci siamo sentiti dire o abbiamo detto questa frase, a cominciare dal Laboratorio del secondo anno d’Università e poi per tutta la vita professionale. Ci si riferiva a quell’ingegnoso apparecchio, in genere di vetro, che consente di estrarre una sostanza da una miscela solida con un flusso continuo di un solvente. Il “soxhlet”, come è ben noto ai chimici, è costituito da un cilindro di vetro posto al di sopra di un pallone contenente il solvente e collegato a un refrigerante. Nel cilindro si pone un “ditale” di carta porosa contenente la miscela solida da cui si vuole estrarre la sostanza cercata. Il solvente evapora dal pallone, entra nel cilindro allo stato di vapore, si condensa nel refrigerante e ricade liquido nel cilindro occupato dal ditale. Il solvente, contenente ora una parte della sostanza da estrarre, dopo avere riempito parte del cilindro, ritorna nel pallone sottostante, come per magia, attraverso un sifone laterale e ricomincia il ciclo di evaporazione, condensazione e estrazione, un’operazione che si osserva con curiosità. Il “soxhlet” viene usato nell’analisi degli alimenti, dei pannelli oleosi, della plastica, dei carboni fossili, del terreno, eccetera (*). Ma perché si chiama così ?

Il merito dell’invenzione va a Franz von Soxhlet, figlio di un belga immigrato nella Moravia, nato nel 1848 a Brno, attuale Repubblica Ceca, e morto a Monaco di Baviera nel 1926. Dopo aver completato gli studi universitari a Lipsia, nel 1873 era stato nominato assistente nell’Istituto di agricoltura e fisiologia animale di Lipsia e, l’anno dopo, nell’Istituto di chimica agraria di Vienna. Dal 1879 al 1913 fu professore di Fisiologia animale e di Industrie lattiero-casearie nella Scuola Tecnica Superiore di Monaco. L’invenzione dell’apparecchio che porta il suo nome risale al 1879 ed è descritta nell’articolo: “Die gewichtanalytische Bestimmung des Milchfattes”, pubblicato in quell’anno nel “Dingler’s Polytechnisches Journal”, pagine 461-465. A dire la verità un apparecchio per l’estrazione continua era stato descritto negli anni 30 dell’Ottocento dal chimico francese Anselme Payen (1795-1861).ma i perfezionamenti di Soxhlet sono stati determinanti per il successo dell’ingegnoso apparecchio.

A Soxhlet si devono numerosi altri contributi. Nel 1865 Louis Pasteur aveva inventato un sistema di sterilizzazione per frenare l’epidemia di vaiolo in Francia a la pastorizzazione era stata applicata a numerosi materiali e alimenti. Nel 1886 Soxhlet la applicò al latte; il processo incontrò dapprima opposizioni, ma presto fu adottato industrialmente. Attento alla difesa della salute dei bambini, nel 1891 Soxhlet inventò anche un semplice dispositivo domestico per sterilizzare il latte: si trattava di un flacone che veniva riempito del latte richiesto per un pasto, veniva fatto bollire per 40 minuti, e poi chiuso ermeticamente e raffreddato. Per questa invenzione è considerato il “riformatore dell’alimentazione infantile”.

Soxhlet descrisse il meccanismo di formazione del burro (1876), descrisse ed analizzò il lattosio, lo zucchero del latte (1880, 1892) e propose (1883) un semplice dispositivo per misurare il contenuto in grassi del latte

Nel 1893 Soxhlet descrisse la differenza fra latte umano e latte di mucca e, nel 1900, studiò il rapporto fra il contenuto di calcio del latte e la comparsa del rachitismo. L’indice SH per la misura dell’acidità del latte e dei prodotti lattiero-caseari deve il nome (1893) a Soxhlet e a Thedoor Henkel (1855-1934): è definito come il numero di ml di idrato sodico 0,25 molare necessari per portare 50 ml di latte a pH 8,3 (indicatore fenolftaleina), così come si chiama “Unità Soxhlet” una misura della capacità di coagulazione del latte in una unità di tempo e a determinata temperatura. Uno degli ultimi lavori di Soxhlet riguardò il rapporto fra il contenuto di ferro del latte e l’anemia infantile. A Soxhlet si attribuisce la separazione e classificazione delle proteine del latte in caseina, albumina, globulina e lattoproteine.

(*) Chiedo scusa per l’autocitazione, ma ricordo di averlo applicato, molti anni fa, per la contemporanea disidratazione e estrazione dei grassi, mediante acetone, da prodotti vegetali per recuperare coloranti liposolubili, o da polpa di pesce fresco o per ottenere farina di pesce essiccata e disidratata. G. Nebbia, "Un nuovo metodo di estrazione dei lipocromi", Olearia, 8, 147-151 (1954); Chemical Abstracts, 49, 417 (1955).

Grazie, Perkin

2011 Anno Internazionale della Chimica

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

La natura è ricchissima, ma anche un po' avara, e anche un po' dispettosa. Mentre gli esseri umani, da sempre, hanno chiesto alla natura una parte delle sue ricchezze per soddisfare le proprie necessità --- per nutrirsi, per curare le malattie, per ottenere le fibre tessili per gli indumenti, per colorare i tessuti, per ricavare papiro e carta su cui depositare i propri pensieri, per fabbricare i metalli, eccetera --- la natura ha distribuito le materie necessarie in maniera bizzarra.

Il chinino per curare la malaria è presente solo in poche piante che crescevano nell'America centrale; un bel colore rosso è stato messo in molluschi che si trovavano lungo le coste siriane; un bel colore blu si poteva trarre dall'indaco ottenibile in poche piante dell'India o dell'Europa meridionale; le migliori fibre tessili erano rappresentate dal cotone indiano e africano; la gomma si poteva ottenere da poche specie di alberi brasiliani. Tante cose utili ottenibili, per secoli, soltanto attraverso traffici e commerci su scala intercontinentale, "globale" come si direbbe oggi.

Traffici che generavano monopoli, speculazioni, conflitti, al punto da spingere gli scienziati a cercare soluzioni alternative: si può ben dire che la scienza e la chimica moderne sono nate per capire come erano fatte le materie e gli oggetti del grande commercio internazionale e per riprodurle per via sintetica, in modo da liberare i paesi occidentali dalla "servitù" dei paesi lontani e coloniali e dall'alto prezzo delle merci di importazione o di monopolio.

La storia della lenta liberazione dalla dipendenza dalle materie naturali è ricca di personaggi, avventure, successi, insuccessi, sorprese. Talvolta i chimici cercavano una sostanza e ne trovavano un'altra, magari di ancora maggiore importanza.

Una delle pagine più affascinanti ha avuto come protagonista un giovanotto inglese, William Perkin (1838-1907) affascinato dalla chimica e dalle sue applicazioni merceologiche. Nei primi decenni dell'Ottocento l'industria era dominata dal carbone e dal ferro. Inghilterra, Germania e Francia erano potenze imperiali grazie alla loro grande produzione di acciaio. Nei primi anni dell'Ottocento era stato scoperto che la produzione di acciaio era migliore se i minerali di ferro erano trattati a caldo con il carbone coke, che si otteneva scaldando ad alta temperatura, in assenza d'aria, il carbone fossile naturale. Durante l'operazione si liberavano sostanze liquide e gassose che lasciavano un residuo sporco nero catramoso, di ben poca utilità pratica.

Con uno spirito che oggi chiameremmo ecologico, la volontà di ricuperare cose utile dalle scorie e dai residui inutili che nessuno sapeva dove mettere, i chimici del tempo avevano scaldato l'inutile catrame ricavandone numerosi prodotti chimici, fra cui anilina, piridina, naftalina, antracene, di struttura abbastanza semplice e suscettibili di trasformazione in moltissime altre sostanze. Gli allievi del grande chimico e cattedratico August Hoffman, a Londra, erano impegnati a trattare questi prodotti per vedere "che cosa succedeva" scaldandoli insieme, ossidandoli, trattandoli con acido solforico, o nitrico, o cloridrico. L'obiettivo era riprodurre sinteticamente le sostanze naturali e qualche volta l'operazione riusciva, altre volte saltavano fuori sostanze del tutto nuove. Fra queste ultime, talvolta alcuni dei prodotti sintetici "servivano"a qualcosa. In una delle sue manipolazioni il giovane Perkin, che stava cercando di ottenere la chinina, il prezioso composto naturale contro la malaria, ottenne una massa di colore nerastro, poi frazionata fino ad arrivare ad una sostanza che si fissava sul cotone e lo colorava in colore lilla molto meglio di quanto facessero i coloranti del tempo.

Tanto per cominciare brevettò subito la scoperta, nell'agosto del 1856, appena diciottenne, poi fece provare il nuovo colorante, che chiamò malveina perché aveva il colore dei fiori di malva, da una tintoria industriale di cotone, poi, costatato che il nuovo colorante era davvero buono, si mise a produrlo in proprio. Il grande Hoffman perse un assistente, ma la società mondiale guadagnò un grande chimico che per tutta la lunga vita, piena di soldi e di successi, continuò a lavorare e a fare scoperte nella chimica sintetica.

La affascinante storia è raccontata nel libro di Simon Garfield: "Il malva di Perkin: storia del colore che ha cambiato il mondo" (Garzanti, 2002), che si legge come un romanzo. La rivoluzione chimica del XIX secolo, cominciata con Perkin, ha cambiato il mondo anche in senso politico. I paesi che avevano il monopolio dei coloranti, della gomma, delle sostanze medicinali, tratti dalla natura sono stati investiti da profonde crisi economiche; la rivoluzione per l'indipendenza dell'India coloniale è stata provocata, fra l'altro, dal fatto che l'Inghilterra, il paese dominante, con le sue industrie sintetiche avevano gettato nella miseria i contadini che coltivavano le piante da indaco.

La storia di Perkin suggerisce anche un messaggio di speranza e di coraggio: la conoscenza, l'osservazione del mondo e della natura, le scoperte di cose utili per gli esseri umani, sono aperte a tutti, oggi molto più che in passato. Il progresso tecnico-scientifico è nelle mani dei cattedratici universitari, ma è accessibile anche a persone intraprendenti e coraggiose e la natura è oggi, ancora più che in passato, una inesauribile miniera di materiali che possono liberare gli esseri umani dalla fame, dalle malattie, dalla povertà. Ai più giovani lettori rivolgo un invito a guardare a Perkin e a chiedersi: "potrei essere anch'io come lui" ? Il mondo è così ricco di cose sconosciute che vi assicuro che la risposta è "si, potrei anch'io".

Justus von Liebig

2011 Anno internazionale della chimica

Chimica News, n. 33, 16-18 (settembre 2010); in Inquinamento, 52, (126), settembre-ottobre 2010

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L’anno venturo 2011 è stato dichiarato “anno internazionale della chimica” e segue l’altro ”anno della chimica” proclamato in Germania nel 2003 in occasione del bicentenario della nascita di Justus von Liebig (12 maggio1803 - 18 aprile1873), chimico e professore universitario, una persona e uno studioso sotto molti aspetti straordinario.

Nato in una famiglia di modeste condizioni Liebig, per quanto si sa, fu uno scadente scolaro; era figlio di un droghiere e ben presto si mise a bazzicare con le sostanze del retrobottega del padre e mostrò una passione grandissima per la chimica e le sue reazioni. Nel 1826, a ventitre anni, fu chiamato ad insegnare nell'Università di Giessen, dove rimase fino al 1852 quando, ormai celebre internazionalmente, fu chiamato all'Università di Monaco dove rimase fino alla morte, nel 1873. Fu nominato barone nel 1845.

Sono state fondamentali le sue ricerche di chimica analitica in cui perfezionò i metodi per l'analisi della composizione elementare delle sostanze organiche. Il refrigerante ad acqua corrente per condensare composti volatili porta ancora oggi, in gergo, il nome di Liebig. Il suo dispositivo per assorbire su potassa caustica l'anidride carbonica che si libera dalla combustione delle sostanze organiche --- il Kaliapparat --- è diventato dispositivo standard dell'analisi chimica e fu assunto come "logo" dall'American Chemical Society.

Liebig condusse ricerche sul processo di fermentazione e sui lieviti anche in polemica con Pasteur. Così come fu talvolta in polemica con altri studiosi del suo tempo. Altre ricerche riguardarono i derivati dell'acido fulminico HCNO, usati come detonatori per esplosivi, il cloralio (dell'idrato di cloralio riconobbe il potere sonnifero), il cloroformio, la struttura di alcuni amminoacidi, e molti altri argomenti.

Liebig ha condotto le sue ricerche con grande attenzione per i problemi concreti, quotidiani, umani e sociali. Capì che la rivoluzione industriale stava portando ad un aumento della popolazione e che una parte delle classi povere avrebbero dovuto fare i conti con la scarsità degli alimenti. Non si dimentichi che le sue ricerche degli anni trenta dell’Ottocento si svolgono appena trent'anni dopo la pubblicazione del saggio di Malthus e nel pieno delle polemiche che tale saggio destò in tutto il mondo. Liebig pensò allora che sarebbe stato importante aumentare la produzione agricola e si dedicò allo studio del meccanismo con cui i vegetali "si nutrono". I rapporti fra chimica inorganica e chimica delle piante furono il tema del suo diploma di dottorato ad Erlangen il 21 giugno 1823.

Capì che la crescita dei vegetali dipendeva dall'assorbimento dall'"ambiente" circostante dell'anidride carbonica, dell'acqua e di sostanze azotate. Nelle sue prime pubblicazioni sostenne che le piante assorbono azoto dall'ammoniaca presente nell'aria e questa ipotesi, sbagliata, destò vivaci polemiche. Poco dopo (circa 1845) corresse questa prima tesi e chiarì che le piante ricavano l'azoto da sostanze inorganiche presenti nel terreno e solubili in acqua, in particolare dai nitrati. E inoltre che le piante hanno bisogno di fosforo che pure assorbono dal terreno, a condizione che esso contenga fosfati solubili in acqua. Fondamentale è l'osservazione secondo cui ogni pianta ha bisogno, ogni anno, di una certa quantità di vari elementi nutritivi; la crescita è perciò impedita o rallentata se la concentrazione nel terreno di anche uno solo degli elementi nutritivi è inferiore alla soglia minima della necessità della pianta; è questa la "legge del minimo" che introduce, implicitamente, il concetto di "limite alla crescita". L'aumento della produzione vegetale richiedeva quindi l'aggiunta al terreno di sali inorganici contenenti azoto e fosforo.

Per la diffusione internazionale di queste idee fu fondamentale il suo libro "La chimica (organica) e il suo impiego in agricoltura e fisiologia", 1840, 1842, traduzione inglese nel 1840, francese nel 1841, italiana nel 1842, spagnola nel 1845. Nel 1845 tenne a Glasgow una conferenza sull'"invenzione" dei concimi artificiali, pubblicata in inglese a Londra, in tedesco nel 1846 e, nello stesso anno, in italiano a Torino e in francese a Parigi.

Liebig insistette comunque sull'importanza della materia organica nel terreno e sulla necessità di conservarne il contenuto di humus e anzi di arricchirlo mediante concimi organici, anticipando in questo molti dei principi della agricoltura "organica", in un corretto equilibrio fra i concimi artificiali e quelli naturali.

L'azoto necessario per la nutrizione vegetale, da addizionare per aumentare le rese agricole, poteva essere ricavato dai grandi giacimenti di guano e di nitrato di sodio esistenti nel Perù e nel Cile: la pubblicità ricevuta dalle scoperte di Liebig avviò l'estrazione su scala industriale e il trasporto in Europa e nel Nord America del nitrato cileno che divenne, per alcuni decenni, l'unica materia prima per i concimi (e per gli esplosivi). La scoperta provocò la nascita di una industria mineraria cilena, in condizioni di monopolio; il governo cileno applicò delle imposte sulle esportazioni (anticipazione di quanto sarebbe successo nel secolo successivo per il petrolio). Per la conquista dell'altopiano di Atacama e del porto di Tacna e Arica fu combattuta la grande "guerra del Pacifico" (1879-1884) fra Cile, Bolivia e Peru. Questi eventi sono stati ricordati in questa rivista: Chimica News, n. 25, 40-42 (novembre 2008), Suppl. Inquinamento, 50, (105), novembre 2008.

Per quanto riguarda la possibilità di produrre concimi fosfatici, Liebig sapeva che esistevano grandi disponibilità di fosfati; le ossa sono costituite da fosfato di calcio; il fosforo era presente nei giacimenti di ferro della Lorena; grandi giacimenti di fosfati minerali esistevano nel Nord Africa e nel Nord America. I fosfati di calcio presenti in natura sono però insolubili in acqua mentre Liebig aveva spiegato che le piante possono assorbire il fosforo soltanto se i suoi sali sono solubili in acqua. Bisognava quindi solubilizzare i fosfati di calcio e Liebig capì che ciò poteva essere fatto con l'acido solforico che in Europa cominciava ad essere prodotto su scala industriale utilizzando lo zolfo della Sicilia. Anche di questo si è parlato più estesamente in questa rivista: Chimica News, n. 30, novembre 2009, p. 18-10; Inquinamento, 51, (120), novembre/dicembre 2009.

In una delle sue "lettere", di cui parleremo, nella undicesima (edizione tedesca del 1865), scrisse che lo sviluppo economico di un paese si misura sulla base della quantità di acido solforico che consuma. (anticipando, con questa affermazione, l’idea che sarebbe stata importante in seguito, di una misura "fisica" e non solo monetaria, dell'importanza economica di un paese). Per sottolineare l'importanza dell'industria chimica, nella stessa lettera, poco prima, aveva indicato nella quantità di sapone prodotto un indice della "civiltà" di un paese.

Altri studi "merceologici" di Liebig riguardarono la produzione di esplosivi, l'estrazione del sale e dei sali potassici, la produzione e l'uso di metalli preziosi, fra cui il platino come catalizzatore, un processo di argentatura degli specchi, l'uso del pirogallolo come sviluppatore fotografico, le proprietà delle leghe ferro-nichelio.

Liebig riconobbe il valore nutritivo delle proteine della carne. Le sue ricerche sono contenute, fra l'altro, nel volume: "Chemische Untersuchung uber das Fleisch und seine Zubereitung zum Nahrungsmittel", pubblicato ad Heidelberg nel 1847, oltre che in numerose delle "Lettere". I grandi allevamenti del bestiame si trovavano però in terre lontane, per esempio nell'America meridionale, e il trasporto della carne in Europa, con le lente navi del tempo, prive di frigoriferi, comportava grandi difficoltà ed elevati costi. Partendo da tali osservazioni Liebig pensò che un miglioramento dell'alimentazione in Europa si sarebbe potuto avere se dalla carne, nei luoghi di allevamento, fosse stato possibile ricavare un "brodo" concentrato sotto forma di "estratto". L'osservazione riscosse l'attenzione dell'ingegnere tedesco Georg Giebert che si trovava in Uruguay e che si recò a Monaco da Liebig chiedendogli l'autorizzazione ad applicare la sua scoperta in una fabbrica in Uruguay, a Fray Bentos, allora piccolo porto sul fiume Uruguay, al confine fra Uruguay e Argentina.

La produzione industriale cominciò nel 1862 (dal 1865 "Liebig's Extract of Meat Company"): la carne degli animali macellati veniva cotta con acqua e il “brodo” risultante veniva concentrato e risultava ricco di sostanze azotate, fra cui la creatinina, e fosfatiche. La compagnia Liebig costruì successivamente vari stabilimenti in vari paesi, una grande multinazionale che distribuiva l'"estratto di carne" in tutto il mondo. E' esistita anche una Compagnia Liebig in Italia, poi acquistata dalla Agnesi e poi dalla Colussi. L’estratto di carne Liebig è ancora in commercio e porta sull’etichetta la firma, con gli ottocenteschi svolazzi, di Liebig. La popolarità dell'estratto di carne fu dovuta anche al fatto che, dal 1873, agli acquirenti delle confezioni venivano regalate delle "figurine" di cui sono state stampate oltre 1800 serie (di sei figurine ciascuna) in molte lingue. La società Liebig produceva anche estratti vegetali e "dadi per brodo". Le storie dell'estratto di carne e della società Liebig si trovano nel sito Internet www.anglo.8m.com . A Fray Bentos ci sono attive iniziative di archeologia industriale per salvare la storica fabbrica.

Sempre nel campo del miglioramento dell'alimentazione umana Liebig sostenne l'utilità del pane integrale, propose alcuni integratori del latte materno e inventò il lievito artificiale costituito da una miscela di bicarbonato di sodio e fosfato monocalcico; per contatto con acqua sviluppa anidride carbonica. Per questa importante invenzione, che consentì di migliorare la qualità del pane anche per i soldati in guerra --- e nella metà dell'Ottocento di guerre non ne mancarono certo --- Liebig non guadagnò niente. Fece con essa invece fortuna uno dei suoi allievi, l'americano Eben Norton Horsford (1818-1893) che, tornato negli Stati Uniti, si dedicò alla produzione industriale del lievito artificiale e divenne milionario.

Oltre che sperimentatore Liebig fu un grande divulgatore. I risultati delle sue ricerche scientifiche apparivano nelle riviste specialistiche e, contemporaneamente, in numerosi libri alcuni scientifici, altri "popolari", come i trattati di chimica. L'attenzione mondiale per Liebig e per i suoi scritti era così grande che le sue opere venivano tradotte quasi immediatamente in molti paesi. Liebig fu il "curatore", dal 1831, della rivista scientifica che sarebbe poi diventata, nel 1840, gli "Annalen der Chemie und Pharmazie" (dopo la sua morte, dal 1873, dal volume 169, "Justus Liebig Annalen der Chemie"). Insieme ad altr, Liebig curò, dal 1847 al 1856, la pubblicazione dello "Jahresbericht ... der ...Chemie".

Nel 1841 l'editore dell'Augsburger “Allgemeine Zeitung”, la “Gazzetta” quotidiana di Augusta, gli chiese di esporre la chimica ad un pubblico più vasto in una serie di articoli nel suo giornale. La prima delle "Chemische Briefe" fu pubblicata il 13 settembre 1841, seguita da altre sei nello stesso anno. Gli articoli ebbero tanto successo che Liebig decise di raccoglierli in volume nel 1844. La prima edizione del 1844 conteneva 26 "lettere"; il loro numero aumentò fino a 50 nella quarta edizione del 1859, che occupava due volumi. Il testo tedesco della "sesta" edizione del 1865 si trova nel sito Internet http://www.liebig-museum.de/justus_liebig/chemische_briefe/. Una traduzione inglese col titolo: "Familiar Letters on Chemistry", apparve a Londra nel 1843 con sedici lettere. Il testo inglese di tali lettere si trova nel sito Internet www.ul.ie/~childsp/liebig/

Le ricerche e gli scritti di Liebig ebbero una grande risonanza anche in Italia. La prima traduzione italiana delle "Lettere" apparve nel 1844 a Torino; la traduzione delle cinquanta lettere della quarta edizione tedesca apparvero nello stesso 1859 a Napoli. Liebig tenne una fittissima corrispondenza con moltissimi studiosi internazionali. Fra gli italiani si possono ricordare le lettere con Ascanio Sobrero (1812-1888, lo scopritore della nitroglicerina, il quale aveva studiato con Liebig), Cannizzaro e altri. Le lettere con Sobrero sono pubblicate nel libro: E. Molinari e F. Quartieri, "Notizie sugli esplodenti in Italia", Milano, Società Prodotti Esplodenti, Milano, Hoepli, 1913. Alcune lettere con studiosi italiani sono conservate a Roma nell'archivio dell'Accademia delle scienze detta dei XL. Nel 1854 Liebig fu insignito del titolo di Cavaliere dell'Ordine di S. Maurizio e Lazzaro.

giovedì 30 settembre 2010

Giorgio Errera (1860-1933) - Persone della chimica

2011 Anno internazionale della chimica

Vincenzo Riganti riganti@unipv.it

Nell'ottobre del 1931 Benito Mussolini ritenne che fossero ormai maturi i tempi per "risolvere la questione delicata e ormai urgente della fascistizzazione delle Università italiane". La soluzione adottata fu quella di invitare i 1213 docenti delle Università italiane a prestare un giuramento, nel quale si impegnavano a formare cittadini devoti "alla Patria e al Regime fascista".

Per inciso, la scarsa considerazione che fu prestata al diktat mussoliniano da parte del Corpo Accademico è già evidente, a nostro avviso, dalla quasi plebiscitaria adesione: accanto a professori che giurarono con vera convinzione, ve ne furono altri che non dettero peso al giuramento (da bambini, quando dovevame negare un comportamento ritenuto solo leggermente riprovevole - che so, aver colto la frutta nel giardino del vicino - giuravamo con le dita incrociate…) ed altri ancora che ritennero più importante compiere un atto di adesione formale che, mantenendoli nel ruolo, permettesse loro di continuare una battaglia clandestina contro il regime illiberale. La leggerezza della più parte dei docenti fu un inconsapevole prologo alle ben più gravi misure razziali degli anni successivi, che costrinsero all'esilio validissimi studiosi e dettero inzio a quella fuga dei cervelli verso più liberi lidi che impoverì soprattutto le facoltà scientifiche e fu non ultima causa della sconfitta dei paesi dell'Asse.

Giulio Natta (1903-1979) - Persone della chimica

2011 Anno internazionale della chimica

Giorgio Nebbia

Ci sono state delle persone che, con il loro lavoro, hanno davvero sconvolto la nostra vita. Una di queste è Giulio Natta (1903-1979), professore universitario, premio Nobel per la chimica, più noto al pubblico come "l'inventore" della materia plastica polipropilene.

Natta era nato a Imperia (che allora si chiamava Porto Maurizio) in Liguria e fin dagli anni di scuola decise di diventare chimico; nel suo diario racconta di essere rimasto incantato a nove anni dalla struttura del guscio della lumaca; la domanda del perché e come la natura ricorre tanto spesso, in tanti esseri viventi, a strutture a spirale, deve avere influenzato il suo futuro interesse per la disposizione degli atomi nelle molecole. Laureato in chimica, nominato professore universitario al Politecnico di Milano, dedicò tutta la sua vita alle applicazioni della chimica a problemi pratici. Natta visse nell'età dell'oro della chimica delle macromolecole che la natura ha diffuso in abbondanza nel mondo vivente vegetale e animale. Sono macromolecole, costituite da migliaia e decine di migliaia di atomi, disposti con una ineguagliabile regolarità, la gomma, la cellulosa, le proteine, gli amidi, le resine. Una volta che ha trovato che una struttura è "buona" ai fini della vita, la natura, nel corso di milioni di anni, ha predisposto dei meccanismi con cui, in ciascun essere vivente, riproduce le stesse molecole e dispone gli atomi con distribuzioni spaziali apparentemente capricciose, ma sempre le stesse.

La chimica che si insegna a scuola descrive le molecole scrivendole sul piano della lavagna o di un foglio. Ma gli atomi di una molecola non sono disposti su un piano e si estendono nello spazio, spesso si dispongono a spirale. Nel caso delle proteine era stato Linus Pauling, nel 1948, a svelare che gli atomi delle proteine sono disposti ad elica, l'osservazione che permise, nel 1953, a Watson e Crick di scoprire che gli atomi del DNA sono disposti a "doppia elica". In questa atmosfera intellettuale Natta, negli anni dal 1935 al 1950, si rivolse allo studio delle macromolecole artificiali. Erano già note le sintesi di macromolecole ottenute da molecole semplici come l'etilene (da cui si forma il polietilene, la nota e comunissima materia plastica dei sacchetti per la spesa) e il cloruro di vinile (da cui si forma il PVC, altra comune materia plastica impiegata per la produzione di bottiglie, giocattoli, e di molti altri oggetti).

Ma Natta rivolse la sua attenzione ad una molecola più complicata, il propilene, un gas che ha tre atomi di carbonio e sei atomi di idrogeno e che, dopo il 1945, cominciava ad essere disponibile come sottoprodotto della raffinazione del petrolio. Molte molecole di propilene possono essere unite a catena fra loro per dare luogo al prolipropilene, con un meccanismo simile a quello che permette di trasformare l'etilene in polietilene.

In Germania il chimico Karl Ziegler (1898-1973) lavorava alla polimerizzazione dell'etilene mediante speciali catalizzatori (sostanze che non entrano nelle reazioni chimiche, ma ne orientano l'andamento): Natta scoprì che gli atomi del polipropilene potevano, a seconda delle condizioni di polimerizzazione e a seconda del catalizzatore, disporsi nello spazio con varie combinazioni; uno dei tre atomi di carbonio, in particolare, poteva trovarsi irregolarmente, talvolta "sopra o "sotto" gli altri due, oppure poteva collocarsi sempre "sopra" o sempre sotto" gli altri due. Diverse combinazioni che portavano a differenti polimeri, o macromolecole, con proprietà tecniche molto diverse quanto a resistenza, durata, elasticità, attitudine ad essere formate in stampi. I polimeri di maggiore interesse commerciale erano quelli "isotattici" (un nome inventato da Natta), cioè con gli atomi laterali tutti dalla stessa parte.

Natta scoprì i catalizzatori che permettevano di ottenere polimeri isotattici del propilene e convinse la Montecatini, la grande società chimica che sarebbe poi diventata la Montedison, a finanziare le ricerche nel suo laboratorio di Milano che divenne non solo la sede delle scoperte che portarono Natta al premio Nobel per la chimica nel 1963, ma un vero crogiolo di studiosi che hanno poi coperto cattedre universitarie in Italia.

La Montecatini cominciò la produzione industriale del polipropilene isotattico nello stabilimento di Ferrara nel 1957. I prodotti diventarono presto molto popolari, grazie anche ad alcune fortunate pubblicità, col nome di Moplen (oggetti di plastica per uso domestico), Meraklon (fibre sintetiche), Moplefan (pellicole). Natta, insieme a Ziegler, ebbe il premio Nobel per la chimica nel 1963; si può leggere la storia in questo sito Internet.

Nonostante il dolore disperato per la morte, nel 1968, dell'amata moglie, che gli era stata al fianco anche nel lavoro, e il progredire di una malattia, Natta continuò a lavorare fino a settant'anni e morì nella casa della figlia a Bergamo.

Ricordare Natta rappresenta non solo un tributo ad una persona a cui l'Università e l'industria italiana devono molto ma è un'occasione per indicare il fascino della ricerca scientifica, in un momento in cui tanto si parla di ricerca e ricercatori: Al di là dei soldi e delle cattedre il successo può anche venire dalla capacità di vedere le meraviglie del guscio di una lumaca.

Giuseppe Adamo (1920-1967) - Persone della chimica

2011 Anno internazionale della chimica

Giorgio Nebbia

Nato a Sannicandro di Bari nel 1920, il prof. Adamo era stato uno dei primi laureati del corso di laurea in Chimica istituito nell’Università di Bari, durante la guerra. Aveva avuto come primo maestro il prof. Riccardo Ciusa (1877-1965) del quale era stato successivamente, per qualche tempo, assistente. Iniziava così fra l’ormai anziano maestro e il giovane allievo una lunga e affettuosa collaborazione che si sarebbe protratta per molti anni anche dopo che, nel 1948, il prof. Adamo era diventato assistente alla cattedra di Merceologia dell’Università di Bari tenuta dal prof. Walter Ciusa (1906-1989).

Libero docente nel 1953, il prof. Adamo era stato incaricato di Merceologia nell’Università di Bari e, vincitore di concorso, nel 1964 era stato chiamato a coprire la seconda cattedra della stessa materia in quella stessa Università che lo aveva avuto come studente di Chimica. Aveva anche tenuto incarichi di “Chimica analitica” e di “Chimica applicata” presso la Facoltà di Scienze.

Il prof. Adamo aveva condotto, in parte in collaborazione col prof. Riccardo Ciusa, una serie di interessanti lavori di chimica organica, soprattutto sulla reazione dio Doebner della quale aveva chiarito alcuni delicati passaggi. In una serie di ricerche di chimica analitica aveva studiato alcuni nuovi sensibili reattivi del calcio e di altri metalli ed aveva anche portato dei nuovi contributi alla chimica della reazione fra coloranti acidi e sali quaternari di ammonio.

La serie più interessante delle sue ricerche è quella che riguarda il campo più strettamente merceologico; gli studi sulle modificazioni chimiche subite dagli alimenti rientrano nel filone della più moderna ricerca merceologica. Partito dallo studio della struttura dell’amido e derivati studiò la variazione della trigonellina e dell’acido nicotinico nel caffè, te e cacao in diversi stati di preparazione; specialmente per il caffè esaminò l’effetto dei diversi gradi di tostatura arrivando a risultati che ebbero risonanza e che furono spesso citati anche all’estero.

La variazione di concentrazione dei due termini del sensibile sistema trigonellina-acido nicotinico fu seguita come criterio del grado di modificazione e alterazione anche in molti altri alimenti prima e dopo cottura e tostatura. La morte l’ha colpito mentre stava estendendo gli studi già iniziati sulle alterazioni subite dai grassi per autossidazione, un campo nel quale aveva già dato importanti contributi.

Giuseppe Adamo è stato uno studioso diligente e sensibile ai problemi più moderni e un insegnante appassionato; molti chimici e molti laureati in Economia Commercio ne ricordano le lezioni alle quali il prof. Adamo dedicava la massima cura. Giuseppe Adamo è scomparso prematramente nel 1947 ad appena 47 anni.

Thomas Midgley (1889-1944) - Persone della chimica

2011 Anno internazionale della chimica

Giorgio Nebbia

Un genio e due trappole tecnologiche: un genio lo era per davvero, Thomas Midgley, nato nel 1889 in una cittadina della Pennsylvania negli Stati uniti; senza aspettare di laurearsi in ingegneria meccanica all’Università Cornell, si cercò un lavoro come disegnatore nel reparto invenzioni della società National Cash Register. Ci restò solo un anno e passò poi nell’officina del padre che si occupava di copertoni per automobili. L’impresa fallì e Midgley passò nel 1916 a lavorare in una società, la Dayton Engineering Laboratories Co., la Delco, che era stata fondata da un favoloso personaggio, Charles Kettering (1876-1958), per migliorare il sistema di accensione dei motori delle automobili.

Kettering gli affidò il compito di perfezionare un motore a scoppio adatto alla capace di generare elettricità per le case isolate nelle quali, per motivi di sicurezza, non si poteva usare benzina, toppo infiammabile; il motore avrebbe dovuto essere alimentato con cherosene, ma fino allora nei motori a scoppio alimentati a cherosene ogni tanto si verificavano delle reazioni esplosive che rovinavano i pistoni. Kettering affidò a Midgley il compito di eliminare l’inconveniente. Midgley pensò che forse l’aggiunta di un colore rosso al cherosene avrebbe facilitato l’assorbimento del calore della combustione e avrebbe reso più regolare la combustione delle gocce di carburante. La leggenda vuole che un sabato pomeriggio Midgley sia andato in laboratorio a cercare un colorante rosso; non ce n’erano, i negozi erano chiusi e l’unico colorante rosso disponibile era lo iodio che Midgley addizionò al cherosene scoprendo che aveva le proprietà antidetonanti cercate.

Questo avveniva nel 1916 e per due anni --- l’America era ormai entrata nella prima guerra mondiale --- Midgley cercò senza tregua un antidetonante ancora migliore che era intanto richiesto per i carburanti usati nei motori a scoppio per aerei con elevato rapporto di compressione. Finalmente nel 1919 scoprì che l’anilina si comportava meglio dello iodio, ma non era ancora soddisfacente.

Per farla breve, dopo aver provato 35.000 sostanze Midgley scoprì che un composto metallorganico poco noto, il piombo tetraetile, aveva un potere antidetonante soddisfacente in concentrazione bassissima, anche di 0,25 grammi per litro di benzina. L’annuncio della scoperta fu data nel 1922, ma ben presto si vide che il suo uso dava luogo alla formazione di incrostazioni di ossido di piombo nel motore; l’inconveniente poteva essere eliminato aggiungendo al piombo tetraetile il dibromuro di etilene; durante la combustione si formava bromuro di piombo, volatile, che veniva eliminato all’esterno del motore, attraverso il tubo di scappamento, nell’aria --- e nei polmoni delle persone che passavano per la strada.

Intanto si vide che il processo di fabbricazione del piombo tetraetile è pericoloso; i primi morti per incidenti in fabbrica si ebbero già nel 1924 e 1925, ma soprattutto ben presto le autorità sanitarie misero in guardia sul pericolo di inquinamento dell’aria ad opera dei derivati del piombo. I produttori di benzina con piombo e di automobili lottarono duramente contro norme che limitassero o vietassero l’uso del piombo tetraetile nelle benzine; solo l’addizione del piombo tetraetile permetteva di mettere in commercio benzine con numero di ottano fra 90 e 100, quali erano richieste dai motori a scoppio sempre più compressi prodotti dall’industria automobilistica per poter offrire ai clienti automobili sempre “più brillanti” e veloci e con elevata “ripresa”.

Le benzine ad alto numero di ottano erano inoltre indispensabili per i motori da aereo, prima della diffusione della propulsione a reazione. Sta di fatto che per quasi mezzo secolo il piombo tetraetile è stato prodotto e usato in tutto il mondo e addizionato a decine di miliardi di litri di benzina. La protesta contro il crescente inquinamento atmosferico si è accompagnata con una crescente attenzione per gli incidenti che si susseguivano nelle fabbriche di piombo tetraetile, per le perdite di composti di piombo nel suolo, eccetera.

Per farla breve, a partire dagli anni sessanta sono state emanate norme nei singoli paesi per vietare l’addizione del piombo tetraetile alle benzine. Sulla crescita e il declino del piombo tetraetile il lettore curioso potrà leggere vati articoli di William Kovarik in questo sito Internet.

Ormai nella maggior parte dei paesi industriali l’uso del piombo tetraetile è stato abbandonato; come antidetonanti sono stati usati vari altri composti, dall’etere etilico butilico terziario, MTBE, al benzene, poi abbandonato per la sua tossicità, a composti aromatici meno tossici; le industrie automobilistiche hanno dovuto adattarsi a produrre autoveicoli con motori meno compressi e le raffinerie hanno dovuto immettere in commercio carburanti con numero di ottano minore.

Ma le invenzioni di Midgley non si sono fermate. Nel 1930 stava cominciando la diffusione di frigoriferi commerciali anche a livello domestico. Un giorno un funzionario della Frigidaire, una divisione della General Motors che produceva frigoriferi, portò a Midgley un messaggio di Kettering che lo invitata a scoprire un fluido frigorifero non infiammabile, non tossico, poco costoso, che potesse sostituire i fluidi frigoriferi usati allora, come anidride solforosa, cloruro di metile, ammoniaca.

Anche qui la leggenda racconta che Midgley e i suoi collaboratori, un giorno, dopo colazione, si misero a consultare le International Critical Tables, la bibbia delle proprietà di tutte le sostanze chimiche note; molti dati erano sbagliati, ma col buon senso e un po’ di fantasia Midgley rivolse ritenne che ideale avrebbe potuto essere una sostanza poco nota chiamata diclorofluorometano. Midgley riuscì a preparare alcuni grammi di questa sostanza per reazione fra il trifluoruro di antimonio e il tetracloruro di carbonio, e vide che era proprio il fluido frigorifero cercato.

Il diclorofluorometano, battezzato CFC-21, fu il primo di una numerosa famiglia di idrocarburi contenenti cloro e fluoro che trovarono ben presto applicazione non solo come fluidi frigoriferi, ma anche come propellenti per spray, nella preparazione di resine espanse, come solventi , soprattutto per la nascente industria elettronica; altri idrocarburi alogenati contenenti anche bromo (halon) ebbero successo come fluidi per estintori di incendio.

Centinaia di migliaia di tonnellate di idrocarburi clorurati, fluorurati e bromurati sono stati usati nel corso di quarant’anni e sono finiti nell’atmosfera. Il bel sogno di Midgley ha cominciato ad offuscarsi nel 1974 dopo la pubblicazione degli studi di Paul Crutzen (1933-), Frank Sherwood Roland (1927-) e Mario Molina (1943)che misero in evidenza il rapporto fra l’immissione nell’atmosfera dei cloroflurocarburi e la diminuzione della concentrazione dell’ozono nella stratosfera, fra 15 e 30 mila metri di altezza. Per tali ricerche hanno avuto tutti e tre nel 1955 il premio Nobel, la cui motivazione si trova in questo sito Internet.

Dal momento che l’ozono stratosferico filtra la radiazione ultravioletta B proveniente dal Sole, dannosa per gli esseri viventi, la diminuzione della concentrazione dell’ozono rappresentava un potenziale danno ecologico. Poco dopo si è visto anche che i clorofluorocarburi si comportano come “gas serra” e contribuiscono a trattenere una parte della radiazione solare incidente dentro l’atmosfera che viene così lentamente riscaldata.

Dopo lunghe discussioni si è arrivati ad un accordo, il “protocollo di Montreal” dell’autunno 1987, che ha deciso di vietare la produzione e l’uso dei clorofluorocarburi in quanto responsabili sia del cosiddetto “buco dell’ozono” sia del riscaldamento globale. Il divieto è stato rafforzato nel 1989 dalla conferenza di Helsinki. E così anche la seconda grande invenzione di Midgley si è tradotta in un insuccesso, dal punto di vista ecologico, il che non oscura l’ingegnosità dell’inventore. Midgley, il chimico, e Kettering, l’ingegnere, hanno occupato un posto importante nella storia delle innovazioni tecnico-scientifiche nel corso degli anni venti e trenta del Novecento

Midgley ha inventato molte altre cose, dalla prima benzina ad alto numero di ottano per aviazione, ad un aeroplano telecomandato, a vari perfezionamenti nel campo della gomma e della vulcanizzazione.

Midgley ebbe una morte prematura e tragica. Nel 1940 fu colpito dalla poliomielite che lo ha reso invalido; col suo solito spirito inventò un meccanismo di pulegge e cavi che poteva comandare da solo e che gli permetteva di alzarsi dal letto. Purtroppo proprio i cavi di questo sistema una sera si sono arrotolati intorno al suo collo e lo hanno strangolato. Era il 2 novembre 1944 e Midgley aveva solo 55 anni.

Wallace Carothers (1896-1939) - Persone della chimica

2011 Anno internazionale della chimica

Giorgio Nebbia

Ho davanti una fotografia del 1940: in una strada centrale di New York un cordone di polizia tiene a bada una folla di persone. Appena otto anni prima, in piena crisi economica, la folla sarebbe stata costituita da disoccupati. Quel giorno del 1940 la folla premeva per entrare nei negozi in cui si vendevano le prime calze da donna fatte con una nuova miracolosa fibra sintetica, il nylon.

In otto anni il "nuovo corso" del presidente americano Roosevelt aveva ridato fiducia al paese, rimesso in moto l'economia, spinto l'industria e le università a nuove ricerche, invenzioni e produzioni. In questo clima, nei laboratori scientifici della società DuPont un giovane chimico fece due scoperte rivoluzionarie: la gomma sintetica clorurata, neoprene, e la prima fibra sintetica poliammidica, il nylon.

Purtroppo l'inventore, William Carothers, nato nel 1896, non era riuscito a vedere il successo del suo lavoro; si era infatti suicidato nell'aprile del 1937.

La scoperta del nylon ha alcuni aspetti straordinari: già nei decenni precedenti erano comparse sul mercato delle fibre artificiali, costituite da cellulosa rigenerata o da derivati della cellulosa (i vari tipi di "raion") o da proteine rigenerate. Negli anni trenta era comparsa qualche fibra sintetica, ma di scadente qualità. Carothers abbe l'idea di preparare sinteticamente una fibra che avesse una struttura chimica simile a quella delle proteine che costituiscono la seta e la lana.

Nel 1935 Carothers riuscì, dopo lunghe ricerche teoriche e fondamentali e innumerevoli tentativi, a far combinare uno speciale acido, l'acido adipico, con una speciale ammina, l'esametilendiammina, in modo da ottenere una poliammide con legami simili a quelli che si trovano, appunto, nelle proteine naturali.

La nuova fibra si rivelò una sostanza fuori del comune: aveva la leggerezza della seta e la resistenza dell'acciaio. A differenza di quanto avviene nelle fibre naturali, il cui diametro è sempre uguale, regolato dalla funzione biologica del baco da seta o dalla formazione dei peli nelle pecore, la nuova fibra poteva essere preparata con diametri variabili a piacere: si potevano ottenere fili sottilissimi ben adatti per la fabbricazione di calze da donna, fino a fili più grossi adatti come setole per gli spazzolini da denti o per la produzione di reti o addirittura di cordami.

Il 27 ottobre 1938 la DuPont annunciò la scoperta del nylon, la fibra "fabbricata da carbone, aria e acqua", presentata poi all'esposizione universale di New York del 1939. Poco dopo arrivarono nei negozi le prime calze da donna di nylon, sottili e trasparenti e resistenti alle smagliature, tanto facili e fastidiose nelle calze di seta. L'entusiasmo dei consumatori fu così grande che il nylon diede un contributo anche alla ripresa dell'economia americana.

Il nylon, una delle meraviglie del secolo, scomparve però presto dai negozi: era cominciata la seconda guerra mondiale e tutto il nylon prodotto fu impiegato a fini militari, per realizzare le corde e le calotte dei paracadute, i traini degli alianti che permisero lo sbarco delle truppe anglo-americane in Europa, i cordami delle navi e infiniti altri oggetti. Finita la guerra, ancora una volta il ritorno delle calze di nylon nei negozi fu un segnale della pace e della ripresa della vita.

Straordinaria come quella del nylon fu la storia del suo inventore: diplomato in ragioneria, Carothers si laureò e ottenne un dottorato in chimica nel 1924; insegnò in varie università e nel 1928 gli fu offerto di entrare nell'industria DuPont. Carothers accettò solo a condizione di poter condurre ricerche di base in piena indipendenza e libertà.

Il patto andò bene soprattutto alla DuPont perché le ricerche di Carothers, ancora oggi fondamentali nel campo delle macromolecole, portarono ben presto alla scoperta del neoprene e poi del nylon, inventato nel 1934 e brevettato nel 1936. Nonostante gli onori e i riconoscimenti ricevuti Carothers era sempre scontento e depresso ed ebbe una vita sentimentale travagliata.

A parte la fine prematura del protagonista, la vicenda scientifica di Carothers e delle sue scoperte offre un piccolo spaccato di un tempo di grandi speranze, di coraggio, di voglia di scoprire i segreti della natura e di lungimiranza e successo imprenditoriale. Che di queste doti ci sia bisogno anche oggi ?

Linus Pauling (1901-1994) - Persone della chimica

2011 Anno internazionale della chimica

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

A Linus Pauling (1901-1994) si devono contributi fondamentali nella chimica e nella biologia e una grande lezione di impegno civile per la pace e contro le bombe atomiche.

Nato nell’Oregon, uno degli stati della costa del Pacifico degli Stati Uniti, da una famiglia povera, lavorò per poter studiare e frequentare l’Università dove si diplomò in scienze per passare poi a studiare chimica fisica all’Università della California a Pasadena. I primi successi di Pauling vennero dalle sue ricerche sulla “natura del legame chimico”. Un fondamentale libro con questo nome, fu pubblicato nel 1939 e fu tradotto in italiano subito dopo la Liberazione, alla fine della lunga notte di isolamento internazionale e culturale imposto dal fascismo.

Georges Claude (1870-1960): un chimico controverso

2011 Anno internazionale della chimica

Giorgio Nebbia

All’inizio li chiamavano “gas nobili” perché non si combinavano con altri elementi chimici, proprio come i re e i nobili non vogliono avere rapporti con i comuni mortali. A dire la verità, col passare del tempo, si è visto che anche i gas nobili, come capita ormai anche ai re e ai nobili, si combinano eccome con elementi meno nobili, dando anzi luogo a curiosi e strani composti. Resta il nome di gas rari perché effettivamente sono presenti in natura in quantità limitate.

Il neo (più comunemente neon) è il secondo dei gas rari che figurano nella tabella di Mendeleev; il primo è l’elio, poi, dopo il neon, seguono l’argo, il cripto, lo xeno e il radon. I primi tre, elio, neon e argo, si trovano in piccole quantità nell’aria. Il gas raro più abbondante è l’argo, presente in ragione di circa 0,93 % in volume nell’atmosfera terrestre, insieme all’azoto (circa 78 %) e all’ossigeno (circa 21 %); segue il neon (appena 0,00181 %), seguito a sua volta dall’elio (0,0005%). Del cripto e dello xeno sono presenti nell’aria minime quantità. Tutti questi gas, attraversati da una corrente elettrica, emettono della luce. Quella del neon è rossa; le scariche elettriche attraverso altri gas generano luci di altri colori.

Giorgio Renato Levi (1895-1965) - Persone della Chimica

2011 Anno internazionale della chimica

Vincenzo Riganti

Giorgio Renato Levi, nato a Ferrara nel 1895, cresce nell’ambiente accademico padovano di Bruni e Sandonnini e con Giuseppe Bruni (1873-1946) si laurea in Chimica nel 1916. Sul suo certificato di laurea non c’è un voto inferiore a trenta.

E’ immediatamente chiamato alle armi e, come chimico, lavora al dinamitificio di Cengio, della società SIPE, nel reparto ricerche. Al termine della guerra continua la sua collaborazione alla SIPE, sviluppando nuovi processi: da ricordare soprattutto quello per la sintesi della benzidina utilizzando l’idrogeno sottoprodotto della preparazione elettrolitica della soda caustica e l’ossido di ferro sottoprodotto della lavorazione dell’anilina. Riveste per un breve periodo le funzioni di direttore del laboratorio ricerche della Società Italica di Rho, occupandosi di coloranti azoici; ma nel 1921 il suo Maestro, Giuseppe Bruni (autore del "Trattato di Chimica Generale e Inorganica" sul quale si sono formate intere generazioni di studenti) lo chiama come assistente al Politecnico di Milano.

Renato Curti Magnani (1908-1981) - Persone della chimica

2011 Anno internazionale della chimica

Vincenzo Riganti

Renato Curti Magnani, ordinario di Merceologia nella Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell'Università di Pavia fino al 1979, originario del lodigiano, fu allievo prediletto del prof. Giorgio Renato Levi e lo seguì quando, dalla cattedra di Chimica generale dell'Università di Milano, il Maestro si trasferì a quella dell'Università di Pavia.

Breve fu però la permanenza del prof. Giorgio Renato Levi nell'Università di Pavia: ben presto le inique leggi razziali lo costrinsero a lasciare l'Italia per l'esilio sudamericano. Se il Maestro poté trasferirsi all'estero dignitosamente, lo dovette alle premure dell'Allievo, che si adoperò in mille modi per salvaguardarne i beni e --- dopo la sconfitta del nazifascismo --- lo riaccolse quando fu reintegrato nella cattedra che era stato costretto ad abbandonare.

Ma nel frattempo Renato Curti Magnani non soltanto continuò le ricerche perseguendo ogni nuova tecnica avanzata --- dalla roentgenografia, alla polarografia, alla cromatografia --- ma svolse anche una apprezzata attività come resistente nelle formazioni partigiane dell'Oltrepò pavese.

Dopo la guerra Renato Curti Magnani fu docente di varie discipline chimiche: dalla Chimica analitica, alla Chimica generale, alla Elettrochimica, finché gli fu chiesto di insegnare Merceologia nella nascente Facoltà di Economia e Commercio dell'Università di Pavia. Arricchì la neonata Facoltà apportando ad una disciplina già allora in evoluzione il contributo che gli derivava dalla multiforme attività svolta nelle altre discipline scientifiche, fino a quando fu chiamato a coprire la cattedra di Chimica Merceologica nella Facoltà di Scienze.

Sempre attento ai progressi del pensiero scientifico, utilizzava le nozioni per insegnare un metodo, per stimolare il desiderio di approfondire e di ampliare: in una lunga e feconda carriera didattica, dal primo incarico che gli fu conferito nel 1937 all'ultima lezione cattedratica che tenne nel 1979, in un arco di più di quarant'anni conobbe ed educò migliaia di allievi.

Continuò nel frattempo la ricerca scientifica: ne danno testimonianza le sue pubblicazioni, apparse su riviste nazionali ed internazionali, molte delle quali precorritrici e anticipatrici di successivi importanti sviluppi, dalle misure dielettriche sulle soluzioni di iodio in benzene, alle ricerche roentgenografiche sui carboni colloidali, alle cromatografie sugli stereoisomeri che apparvero sul Journal of the American Chemical Society all'inizio degli anni '50, fino alle successive ricerche indirizzate a temi merceologici e tecnologici di notevole rilievo.

Mi piace ricordare che le sue ultime pubblicazioni della seconda metà degli anni '70 toccano temi quali la qualità delle acque di superficie ed il restauro delle strutture monumentali, ancor oggi attuali e vivi, a testimonianza della sua acuta sensibilità non soltanto di ricercatore nel settore della chimica merceologica ma anche di naturalista e di cultore d'arte. Egli difatti non limitò la sua attività allo specifico campo disciplinare della Chimica merceologica ma fu cultore attento e preparato delle discipline musicali, autore di volumi storici, colse meritati successi nello sci e nella motonautica, militò attivamente nella Resistenza.

Anche in questo sta il suo insegnamento: ci ha mostrato che l'uomo è veramente tale solo se è aperto a tutti gli orizzonti della vita.

Dmitri Mendeleev (1834-1907) - Persone della chimica

2011 Anno internazionale della Chimica

Giorgio Nebbia

Poche persone nella storia della cultura occupano una posizione così rilevante come Dimitri Mendeleev (1834-1907), il chimico russo che scoprì e divulgò una delle più straordinarie proprietà della materia, la regolarità del comportamento degli atomi. La scoperta di quella che oggi di chiama “Tabella di Mendeleev" aprì nuovi orizzonti alla conoscenza del mondo ed è dovuta a un grande scienziato che fu anche un personaggio pittoresco.

Nato in Siberia nel 1834, si trasferì da ragazzo a Mosca e studiò a Pietroburgo --- la leggendaria Leningrado del periodo sovietico, la città martire che fermò l’avanzata nazista verso oriente e resistette ad un assedio durato mille giorni, ora chiamata San Pietroburgo. Mendeleev continuò e approfondì gli studi di chimica nei laboratori chimici europei più famosi, in Francia e in Germania.

Nel 1866, a 32 anni, diventò professore universitario di chimica e tre anni dopo, nel 1869, pubblicò la prima edizione della tavola periodica degli elementi. Alla base di questa scoperta sta una visione illuministica: l'idea che le faccende della natura dovessero essere disposte "in ordine". Che ci fosse un ordine anche nelle proprietà degli elementi che compongono tutta la materia ? Per tentare una risposta a questa domanda Mendeleev cominciò a disporre, sulla carta, gli elementi noti in quel tempo, una sessantina, in ordine di peso atomico crescente.

Il peso atomico è un numero che indica di quante volte un atomo pesa più di un atomo di idrogeno, il cui peso atomico è preso (praticamente) uguale ad uno. Mendeleev dispose così, in una riga orizzontale, uno dopo l'altro, l'idrogeno (simbolo H; peso atomico 1), il litio (Li; 7), il berillio (Be; 9), il boro (B; 7), il carbonio (C; 12), l'azoto (N; 14), l'ossigeno (O; 16), il fluoro (F; 19).

L'elemento successivo era il sodio (Na; peso atomico 23), il cui comportamento chimico è simile a quello del litio. Mendeleev cominciò, così un'altra riga orizzontale, sempre disponendo gli atomi in ordine di peso atomico crescente e mettendo ciascun atomo nella casella sottostante l'atomo precedente dotato di comportamento simile. Dopo il sodio veniva il magnesio (Mg; 24) che ha comportamento simile a quello del berillio; l'alluminio (Al; 27), chimicamente simile al boro. Seguiva poi il silicio (Si; 28), che stava bene in colonna sotto il carbonio; il fosforo (P; 31) simile all'azoto; lo zolfo (S; 32), simile all'ossigeno; e il cloro (Cl; 35) simile al fluoro.

L'elemento successivo, in ordine di peso, era il potassio (K; 39) che Mendeleev potè sistemare convenientemente all'inizio di una terza riga orizzontale, in colonna sotto il litio e il sodio che hanno comportamento chimico simile a quello del potassio. Veniva poi il calcio (Ca; 40) che andava bene sotto il berillio e il magnesio.

A questo punto Mendeleev incontrò una serie di elementi con proprietà che non si erano ancora incontrate. Dovette allora predisporre, dopo due righe "corte", alcune righe "lunghe", ma il principio della periodicità delle caratteristiche chimiche continuava, in maniera soprendente, ad essere rispettato.

Continuando con questo criterio Mendeleev sistemò i 63 atomi che conosceva nel 1869; se non trovava al posto giusto l'atomo giusto lasciava vuota una casella e andava avanti. Nella edizione inglese del suo "Trattato di chimica", pubblicata nel 1891, figurano 65 elementi, con molti “vuoti”. Per esempio c’era una casella vuota fra il molibdeno (Mo) e il rutenio (Ru); se si osserva una tabella moderna si vede che oggi tale casella è occupata dal tecnezio (Tc), un elemento radioattivo, per inciso il primo elemento prodotto artificialmente con reazioni nucleari nel 1937 da Segrè; le sue proprietà corrispondono esattamente a quelle degli altri elementi della colonna in cui si colloca.

Mendeleev non conosceva i gas rari, o gas nobili: fra l'idrogeno (H) e il litio (Li) c'e' un altro elemento, l'elio (simbolo He), con peso atomico 4, il primo dei gas rari; il secondo gas raro, il neon (Ne), con il suo peso atomico 20 trova posto perfettamente nella casella sotto quella dell’elio, fra il fluoro e il sodio.

Nel 1935 gli elementi noti erano diventati 92; l'ultimo era l'uranio (U) che già Mendeleev conosceva. Con le reazioni nucleari sono stati preparati vari elementi artificiali di peso atomico superiore a quello dell'uranio, o transuranici. Giustamente a uno di questi, scoperto nel 1955, è stato dato il nome di "mendelevio" (simbolo Mv; peso atomico 256), in onore del chimico russo. Inutile dire che anche i transuranici presentano proprietà chimiche del tutto rispettose del principio di periodicità, rispetto agli elementi delle righe precedenti.

Tutto questo è ormai patrimonio della nostra cultura e anche i ragazzi che studiano qualche elemento di chimica nelle scuole medie conoscono bene la "Tabella di Mendeleev". Il riconoscimento della scoperta non fu, però, né rapido né facile. La scoperta fu accolta infatti con scetticismo e la sua importanza fu riconosciuta soltanto perché, nel corso degli anni settanta dell’Ottocento, furono identificati e analizzati vari nuovi elementi che si collocavano perfettamente nelle caselle lasciate vuote nella prima edizione della "tabella".

Questa verifica della validità della sua intuizione assicurò a Mendeleev una celebrità mondiale e, nel 1906, il premio Nobel per la chimica. Nonostante la celebrità, la vita del grande scienziato fu abbastanza agitata; Mendeleev fu anche un progressista e un contestatore. La Russia zarista ebbe un suo 'sessantotto' di contestazione universitaria e Mendeleev fu sempre dalla parte degli studenti, insieme ai quali fu arrestato dalla polizia durante una manifestazione.

Mendeleev viaggiava in ferrovia in terza classe per stare in mezzo al popolo e capirne i problemi. Si tagliava i capelli e la barba una volta all'anno; quando lo zar --- che era un tiranno, ma rispettava gli scienziati --- lo invitò a corte, gli addetti al cerimoniale chiesero a Mendeleev di mettersi un po' in ordine i capelli. Il grande chimico rispose che o lo zar lo riceveva così com'era, oppure sarebbe rimasto a casa propria. E la ebbe vinta.

All'esempio di indipendenza e di rigore morale si accompagnavano felici doti di sperimentatore, di docente e di divulgatore. Un suo trattato: "Principi di chimica", ebbe molte edizioni e fu tradotto in molte lingue contribuendo a diffondere la fama dell'autore e della scienza russa. Alcuni anni fa nei paesi civili il 150° anniversario della nascita di Mendeleev è stato celebrato con l'emissione di francobolli, con manifestazioni popolari, con trasmissioni televisive. In Italia niente. Per curiosità ho esplorato gli elenchi stradali delle grandi città per vedere se almeno una di queste avesse dedicato una strada a Dimitri Mendeleev.
Macché. E poi ci lamentiamo della crisi della chimica in Italia !

Marie Curie (1867-1934) - Persone della chimica

2011 Anno internazionale della Chimica

Giorgio Nebbia

Immaginate un capannone col tetto dalla copertura sconnessa che lascia passare la pioggia, e immaginate un mucchio di terra scura per terra, e immaginate un bancone e una giovane donna, laureata in fisica e in matematica, che, al caldo e al freddo, passa le sue giornate a trattare quella terra scura a venti chili per volta, con acidi, e a filtrare e a ridisciogliere i residui con altri acidi ancora. E immaginate suo marito, un giovane professore di fisica che, accanto a lei, controlla ogni frazione di materiale separato con un apparecchio (di sua invenzione) che misura la presenza dei “raggi” che provocano una scarica elettrica fra due elettrodi. Raggi simili a quelli emessi dall’uranio e dal torio.

Siamo a Parigi, più di un secolo fa. La giovane fisica, di origine polacca (si chiamava Marie Sklodowska, sposata Curie), aveva osservato che un minerale di uranio, la pechblenda, emanava i misteriosi ”raggi dell’uranio” in quantità molto maggiore di quanto potesse essere giustificato dal suo contenuto di uranio: era come se nel minerale fosse presente un altro elemento molto più attivo dell’uranio stesso.

Maria e il marito Pierre Curie (1859-1906), dopo un gran numero di separazioni, nel giugno del 1898 poterono riferire di aver identificato un nuovo elemento chimico molto attivo, con proprietà chimiche simili a quelle del bismuto. “Suggeriamo”, scrissero nella loro pubblicazione, “che il nuovo elemento sia chiamato ‘polonio’ dal nome del paese di origine di uno di noi”. Dopo altri sei mesi di lavoro poterono descrivere l’esistenza di un altro elemento ancora, che emanava i raggi dell’uranio con una intensità un milione di volte superiore a quella dell’uranio, con comportamento chimico simile a quello del bario, e chiamarono la nuova sostanza “radio” e il fenomeno “radioattività”.

Per accertare la natura delle nuove sostanze i Curie riuscirono a farsi regalare, e in parte comprarono di tasca propria, alcune tonnellate di scorie residue delle miniere di pechblenda di Joachimsthal in Boemia (oggi Jachymov, nella Repubblica Ceca). Finalmente nel 1903 Marie Curie riuscì ad isolare cento milligrammi di cloruro di radio puro, e tale ricerca fu l’argomento della sua tesi di laurea in chimica.

Ben presto fu scoperto che il radio era prezioso per la cura dei tumori; una troppo lunga esposizione, però, provocava ferite e tumori. “Il raggio che uccide e risana” --- era il titolo di un romanzo popolare del tempo --- destò un’enorme impressione nell’opinione pubblica, in tutto il mondo.

I Curie si rifiutarono di brevettare il procedimento di preparazione del radio che fu ben presto fabbricato su scala commerciale. Il governo austriaco, di cui allora Joachimsthal faceva parte, vietò le esportazioni della pechblenda che si trovava nel suo territorio e si mise a estrarre il radio sul posto; quasi contemporaneamente il radio fu prodotto in Francia, negli Stati Uniti, in Svezia. Ma, al di là delle applicazioni pratiche, le scoperte dei coniugi Curie aprirono le porte alla comprensione della natura dell’atomo e del suo nucleo, alla radioattività artificiale, alla fissione e alla fusione nucleare, insomma al mondo moderno.

Altrettanto romanzesca quanto la storia del radio è la vita entusiasmante e drammatica di Marie Curie. In pochi anni diventò nota in Francia e in tutto il mondo ma, nonostante la celebrità, i Curie non solo non diventarono ricchi, ma dovettero fare i conti con ristrettezze economiche alleviate solo in parte dall’assegnazione, nel 1903, del premio Nobel per la fisica. Nello stesso anno 1903 Pierre Curie fu proposto per la Legion d’Onore, la massima onoreficenza francese, ma replicò che gli occorrevano non medaglie, ma piuttosto un buon laboratorio in cui continuare le sue ricerche. Pierre Curie morì a Parigi, investito da un carro a cavalli, nel 1906 e Marie rimase vedova a 38 anni con due bambine, Irene (1897-1956,che avrebbe ottenuto il premio Nobel per la fisica nel 1935 col marito Frederic Joliot (1900-1958) per la scoperta della radioattività artificiale) e Eva (1904-), a cui si deve una bella biografia della madre, pubblicata nel 1937 e tradotta anche in italiano.

Nonostante l’impegno familiare e l’insegnamento, Marie Curie continuò le ricerche sulla separazione, purificazione e le proprietà del radio, che le valsero nel 1911 un secondo premio Nobel, questa volta per la chimica. Il successo, quale mai una donna, e una straniera per di più, aveva raggiunto, destò, come spesso capita, gelosie e invidie e la Curie fu al centro di una campagna denigratoria: dapprima fu accusata di essere ebrea, proprio negli anni in cui la Francia era travolta da una ondata di antisemitismo, culminata nel caso Dreyfus, poi di essere l’amante del collega Langevin, un fisico anche lui. Queste accuse le preclusero l’elezione, che sarebbe stata ben meritata, all’Accademia di Francia.

Eppure Marie Curie rimase fedele al suo impegno di studiosa, di madre e al suo altruismo: durante la prima guerra mondiale (1914-1919) organizzò delle unità mobili dotate di apparecchi per raggi X che permettevano, nelle vicinanze del fronte, di identificare rapidamente e con sicurezza le ferite dei soldati. Marie stessa, con la figlia Irene diciottenne, guidava uno dei laboratori mobili.

Nel 1918, alla fine della guerra, Marie Curie potè finalmente entrare nel nuovo Istituto del radio di Parigi, tanto desiderato, dove aveva a disposizione laboratori adeguati, anche se l’Istituto era dotato soltanto di una piccolissima quantità, un solo grammo, del radio necessario per le sue ricerche, quando la produzione mondiale del prezioso e costoso elemento, da lei scoperto, ammontava ormai a vari chilogrammi.

Una giornalista americana organizzò allora, nel 1926, un viaggio che portò Marie Curie, già malata, in numerose città e università americane dove tenne faticosamente varie conferenze e fu accolta entusiasticamente come “la donna del radio”. Come premio per tanta fatica riuscì a raccogliere i fondi per acquistare due grammi di radio per il suo Istituto.

La leucemia provocata dal contatto, per trent’anni, con tanto materiale radioattivo uccise Marie Curie nel 1934. Per iniziativa del presidente francese Mitterrand, nel 1995 le sue ceneri, insieme a quelle del marito Pierre, furono portate nel Pantheon, il tempio della gloria della Francia. Credo che ogni fisico, ogni chimico, ogni studioso, ogni donna, direi, dovrebbero essere orgogliosi di avere qualcosa in comune con una persona come Marie Curie. Vorrei che la sua passione e la sua storia umana, più che la speranza di cattedre, stipendi, onori e interviste televisive, spingessero un numero crescente di giovani studiosi ad esplorare il mondo della natura con lo stesso disinteresse, premessa essenziale per le scoperte capaci di alleviare il dolore dell’umanità.