lunedì 23 dicembre 2013

SM 1434 -- La benzina sintetica -- 1989

l'Unità, 29 giugno 1989

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Il carbone è un combustibile fossile nero e solido, costituito da grandi molecole organiche, molto complicate, contenenti, in media, un atomo di idrogeno ogni due atomi di carbonio, insieme a piccole quantità di altri elementi, fra cui zolfo e azoto. Il carbone è andato bene come combustibile per impianti fissi e per le caldaie di treni e navi, per i primi due secoli della rivoluzione industriale, fino alla seconda metà del 1800.

Dopo il 1850 il versiliese Barsanti e il tedesco Otto inventarono dei motori più piccoli, a combustione interna, che potevano essere utilizzati anche su veicoli mobili, ma che funzionavano soltanto con combustibili liquidi, come l'alcol etilico, peraltro costoso, oppure con i nuovi composti ricavabili dalla distillazione del petrolio. Questi ultimi, divenuti disponibili commercialmente dopo il 1870, sono costituiti da idrocarburi, composti liquidi contenenti circa due atomi di idrogeno per ogni atomo di carbonio, insieme, come al solito, a vari altri elementi.

venerdì 1 novembre 2013

R.Carpignano, La ChimicaMaestra

La ChimicaMaestra -Didattica della Chimica per futuri maestri
di Rosarina Carpignano, Giuseppina Cerrato, Daniela Lanfranco e Tiziano Pera
272 pagine - ottobre 2013 -  prezzo: 28 Euro
Editore: Il Baobab, l’albero della ricerca – e-mail: info@baobabricerca.org 
Distributore: Libreria CORTINA TORINO srl- Corso Marconi 34/a- 10125 Torino-

La ChimicaMaestra è destinato ai futuri insegnanti che frequentano il Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria, ma può essere utile anche a coloro che già operano nelle aule di insegnamento.
Il testo si compone di  4 parti.
Parte 1: breve introduzione pedagogica a sostegno dell’idea di centralità dello studente-bambino come cittadino della sua stessa scuola e della didattica attiva fondata sulla laboratorialità come strumento per costruire competenza;
Parte 2:  proposta di percorso didattico fondato sui principi e sui fondamenti della Chimica di cui, oltre agli aspetti teorici, vengono forniti gli sfondi storici e i contesti di senso;
Parte 3 dedicata ad esperimenti ed esperienze pratiche validate e concretamente realizzabili,  corredate da protocolli, informazioni e dati utili per accompagnare i bambini a costruirsi un loro metodo, entro i confini permeabili tra realtà e fantasia (favole, racconti, problemi sfidanti e situazioni-caso) e per indirizzare gli insegnanti a raccogliere indizi di competenza dai bambini coinvolti nell’azione;
Parte 4: vi si trovano le riflessioni sulla prospettiva culturale promossa nel testo e in grado di orientare la prassi d’aula in modo coerente con  la didattica per la competenza promossa dalle nuove Indicazioni MIUR.
Conclude il testo una ricca Bibliografia e  Sitografia.          

            La ChimicaMaestra si propone come strumento di transizione dalla scuola della Scienza-mito a quella del bambino scienziato, dove alle verità indiscutibili si sostituiscono le ipotesi sindacabili e verificabili, valide solo fino a prova contraria e proprie di una Chimica “viva”, al passo con i tempi.

lunedì 21 ottobre 2013

SM 3601 -- Quando la chimica era ingenua -- 2013


Il blog della Società Chimica Italiana, 20 ottobre 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Quando non erano ancora stati inventati gli omega3, per caratterizzare gli oli di pesce si seguiva il metodo di Tortelli-Jaffe come segue: “In un cilindretto a piede, con tappo smerigliato e perfettamente asciutto, si introducono 1 cm3 di olio del tutto esente da acqua, 6 cm3 di cloroformio, 1 cm3 di acido acetico glaciale, agitando fino a soluzione omogenea, quindi 40 gocce di una soluzione al 10 % di bromo in cloroformio e si agita nuovamente per qualche secondo: gli olii di animali marini e i loro prodotti di idrogenazione dopo qualche minuto si colorano in verde con riflessi azzurrini o giallognoli e questa tinta si intensifica sempre più entro mezz’ora, passando poi al bruno”. Chimica non tanto ingenua, poi, perché era citata nel Chemische Zeitung, vol. 39, p. 14-15 (1915) dove la reazione è interpretata come dovuta alla presenza negli oli di un cromogeno che, in certe condizioni, si trasforma in una sostanza con un colore caratteristico. La reazione di Tortelli e Jaffe era citata anche nell’ Yearbook of the American Pharmaceutical Association, vol. 4, p. 300 (1915) e in altri testi del tempo, oltre che in tutti i libri italiani di chimica analitica applicata e di Merceologia.

lunedì 19 agosto 2013

SM 3582 -- La bilancia di Westphal

  
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Ho sempre amato la bilancia di Westphal. Forse l’ho vista per la prima volta in un libro del liceo, poi l’ho ritrovata in qualche “Laboratorio” di chimica e finalmente l’ho frequentata spesso da assistente nelle esercitazioni di Merceologia, affascinante nella sua elegante cassetta di legno, imbottita. Mi affascinavano i pesi, chiamati romanticamente cavalieri, in tedesco Reitergewichte, la pinzetta per maneggiare i pesi senza sporcarli con il grasso delle dita, e tutto il funzionamento: il riferimento al principio di Archimede, che ogni volta immaginavo, e raccontavo, nella vasca da bagno, e la buona precisione, alla terza cifra decimale, che consentiva buone misure del peso specifico dei liquidi ma anche di solidi. Doveva piacere anche a Primo Levi che la cita nel capitolo “Potassio” del suo libro “Il sistema periodico”..

Nella bilancia di Westphal che si usava alla Merceologia a Bologna il filo che collegava il braccio mobile al peso, con termometro incorporato, era del prezioso (negli anni 40 del Novecento) platino, altro aspetto fascinoso, in modo da poter effettuare misure di peso specifico con liquidi corrosivi. L’unica curiosità era quel nome, talvolta scritto, anche in alcuni libri, con due elle, che faceva pensare alla Vestfalia, regione nord-occidentale della Germania, quella della pace del 1648 che mise fine alla guerra dei trent’anni, la regione tedesca della Westfalia. Molti libri indicavano la bella bilancia col doppio nome Mohr Westphal

Mohr, che fosse quello del “sale”, (NH4)2Fe(SO4)2.6H2O, che si maneggia per le titolazioni di ossido-riduzione nel laboratorio del primo anno ? Si, si tratta proprio di Karl Friedrich Mohr (1806-1879), figlio di un farmacista nel cui laboratorio aveva imparato a maneggiare apparecchiature chimiche e si era cimentato con le prime analisi Dopo la laurea in chimica alla morte del padre dovette dedicarsi agli affari di famiglia che però, dopo poco, andarono male. Assunse così un lavoro nel laboratorio universitario e, per le sue competenze, e abilità sperimentali, fu nominato prima professore aggregato e poi professore ordinario.

Nel 1877, due anni prima della morte, apparve il suo monumentale trattato di chimica analitica: ”Lehrbuch der chemisch-analytischen Titrirmethoden”. Fra i suoi contributi va ricordata appunto la bilancia per la misura del peso specifico con l’elegante sistema di compensazione della “spinta” del liquido in cui è immerso un peso tarato, rispetto all’equilibrio dello stesso peso nell’aria. Tale “spinta” viene compensata ponendo dei pesi tarati, i”cavalieri”, sulle varie tacche del braccio che regge il peso.

E ancora: a noi oggi sono familiari le burette tarate da cui il fluido fuoriesce attraverso un rubinetto di vetro. Ma ai tempi di Mohr non esistevano e Mohr suggerì di applicare all’estremità inferiore della buretta un tubicino di gomma chiuso con una molletta metallica in modo da far uscire il liquido in quantità controllate allentando la pressione della “pinza”. Ricordo dio avere visto anch’io una di questa pinzette che venivano ancora chiamate “pinze di Mohr”, dai vecchi mitici “tecnici” di laboratorio. Talvolta diplomati, talvolta autodidatti, impratichiti assistendo i professori nella,preparazione delle lezioni, vecchi “maghetti” che sapevano fare tutto, che aiutavano gli studenti e anche i giovani assistenti nelle esercitazioni e nelle attività di laboratorio..

Quanto poi al nome Westphal non si trattava della regione tedesca, ma del tedesco Georg Wilhelm Westphal, artigiano ed inventore, che nel 1860 aveva fondato a Celle, città della Bassa Sassonia, la ditta "Georg Westphal Präzisionstechnik". Westphal fabbricava bilance, strumenti di precisione e vetreria e la sua ditta era nota anche al di fuori della Germania. Nel 1896, il periodo di massima floridezza --- era anche un periodo d’oro per la chimica tedesca --- le officine meccaniche e ottiche Georg Westphal vendettero circa 3000 pezzi e ottennero vati premi e medaglie nelle fiere internazionali di Vienna, Berlino, Londra, Parigi, Celle, Hannover, Brema.

In quel tempo Westphal aveva 29 impiegati ed era il principale fabbricamte tedesco di bilance e strumenti di precisione della Germania. Alla morte di Westphal nel 1902 l’attività fu continuata dalla vedova e da un collaboratore, Ernst Raute ma, nonostante venisse conservato il nome prestigioso del fondatore, gli affari andarono peggiorando. Raute morì nel 1946 a 89 anni, pare portandosi nella tomba il segreto della taratura di precisione degli strumenti

Nel 1950 la ditta Westphal fu acquistata dal costruttore di strumenti di precisione Rudolf Strohauer, poi da altri imprenditori e fu trasferita a Westercelle dove continuò la fabbricazione di bilance e strumenti di precisione con le nuove tecnologie, ancora con il nome Westphal Präzisionstechnik GmbH & Co.

Ecco risolto il mistero (per me) del nome; se si fosse trattato della Vestfalia, regione di belle ragazze e coraggiosi cavalieri, non per niente il suo simbolo è un cavallo bianco, sarebbe stato meglio, ma nella vita non si può avere tutto..



mercoledì 31 luglio 2013

SM 3578 -- La chimica del riciclo -- 2013

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 30 luglio 2013 

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Nel film “Il laureato”, di Mike Nichols, del 1967, considerato uno dei più importanti film della storia, quando il giovane Benjamin Braddock (un grande Dustin Hoffman) torna a casa dopo la laurea, tutti si preoccupano del suo avvenire e di come farlo sposare con la figlia del socio del padre. Il solerte amico di famiglia, il signor McGuire, lo prende da parte e gli dice: “Benjamin: ti dirò una sola parola: plastica”. Aveva ragione il signor McGuire; nella plastica, sembravano riposte le fortune del mondo; negli anni sessanta la produzione mondiale di materie plastiche era di circa 15 milioni di tonnellate all’anno, oggi si aggira intorno a 300 milioni di tonnellate all’anno, un quarto di queste fabbricate nel solito gigante industriale cinese.

martedì 18 giugno 2013

SM 3566 -- Da una trappola all'altra -- 2013

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 18 giugno 2013 

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Forse una notizia abbastanza buona. In un recente incontro i presidenti delle due maggiori potenze industriali mondiali, gli Stati Uniti e la Cina, si sono accordati per eliminare gradualmente, da ora al 2050, l’uso degli idrocarburi fluorurati, HFC, una classe di sostanze chimiche che stanno sostituendo i cloro-fluoro-carburi (CFC), responsabili della distruzione dell’ozono stratosferico, ma che si sono rivelate a loro volta responsabili del riscaldamento planetario.

Tutto è cominciato quando, nel 1928, il chimico Thomas Midgley (1889-1944) ha scoperto che certe molecole, nelle quali uno o due atomi di carbonio erano legati ad atomi di cloro e di fluoro, anziché ad atomi di idrogeno, come negli idrocarburi, avevano singolari proprietà tecniche. I CFC, non infiammabili, stabili chimicamente, privi di odore, si sono rivelati utilissimi come fluidi propellenti per i preparati commerciati in confezioni spray, le cosiddette “bombolette”, di deodoranti, di vernici e cosmetici, e come fluidi frigoriferi; anzi il loro uso ha determinato il successo dei frigoriferi domestici, tanto utili per conservare i cibi a lungo, e dei condizionatori d’aria che rendono meno afosa l’aria degli edifici e delle automobili.

Inoltre alcuni CFC sono risultati eccellenti per rigonfiare le materie plastiche e trasformarle nelle “resine espanse”, così importanti come isolanti termici per il trasporto dei cibi, come isolanti acustici e termici in edilizia, per produrre materassi, cuscini e poltrone per le case e le automobili. Un trionfo: peccato che, negli anni settanta del Novecento, alcuni studiosi si siano accorti che questi CFC, nel disperdersi nell’atmosfera raggiungono la stratosfera, lo strato di gas che si trova fra 10 e 30 chilometri di altezza, e qui decompongono l’ozono O3, l’altra forma del comune ossigeno O2. L’ozono stratosferico, pur presente in forma molto diluita, ha la proprietà di filtrare la radiazione ultravioletta biologicamente dannosa UV-B, proveniente dal Sole, impedendole di arrivare sulla superficie della Terra. Questa radiazione UV-B è responsabile di tumori della pelle e di malattie degli occhi negli umani, ma ha anche effetti nocivi su altri cicli biologici, tanto che alcuni pensano che la vita sia comparsa sui continenti e negli oceani, alcuni miliardi di anni fa, quando una parte dell’ossigeno della stratosfera ha cominciato a trasformarsi nel più benigno ozono.

Il chimico messicano Mario Molina e il chimico statunitense Sherwood Rowland (1927-2012) hanno ottenuto il premio Nobel per la scoperta del rapporto fra CFC e diminuzione della concentrazione dell’ozono stratosferico, una scoperta che ha indotto molti governi a vietare l’uso della maggior parte dei CFC con un accordo, il “protocollo di Montreal” del 1987. L’industria chimica si è subito impegnata a cercare dei surrogati, delle molecole nelle quali non fossero presenti atomi di cloro, ma solo atomi di idrogeno e di fluoro. Sono così nati gli idrocarburi fluorurati HFC, prodotti subito su vasta scala a partire dal 1990.

Da una trappola all’altra, però, perché gli HFC sono meno dannosi per lo strato di ozono, ma si comportano come “gas serra” contribuendo al riscaldamento globale e ai mutamenti climatici. Anzi contribuendo moltissimo perché un chilo di HFC trattiene l’energia solare nell’atmosfera come 1000 chili di anidride carbonica CO2, l’altro importante “gas serra”. Il “protocollo di Kyoto” del 1997, per il rallentamento dei mutamenti climatici, ha incluso gli HFC fra le sostanze il cui uso deve essere limitato. A questa nuova limitazione si sono opposti molti paesi, specialmente quelli in via di sviluppo o sottosviluppati che temevano l’aumento del prezzo dei frigoriferi e dei condizionatori d’aria se avessero dovuto essere impiegati altri fluidi frigoriferi meno dannosi per l’ambiente, ma più costosi. E’ così cominciata una lunga guerra fra interessi industriali, interessi nazionali, innovazioni chimiche. La Cina e l’India finora sono stati i paesi più contrari all’eliminazione degli HFC; da qui l’importanza del recente accordo fra Cina e Stati Uniti, ricordato all’inizio.

I due presidenti Xi e Obama hanno spiegato che la graduale eliminazione, da qui al 2050, dell’uso anche degli HFC rallenterebbe i mutamenti climatici come se, nello stesso periodo, nell’atmosfera venissero immessi 80 miliardi di tonnellate di CO2 di meno (attualmente ogni anno vengono immessi nell’atmosfera “gas serra” equivalenti a circa 30 miliardi di tonnellate di CO2 ). Un passo avanti, ma i problemi non sono finiti: nei frigoriferi e nelle resine espanse esistenti nel mondo e fabbricati negli ultimi decenni, ci sono ancora grandissime quantità, dell’ordine di milioni di tonnellate, sia dei cloro-fluoro-carburi CFC, vietati da tempo, sia degli idrocarburi fluorurati HFC in crescente uso; questi gas continuano a liberarsi quando i frigoriferi e i condizionatori d’aria sono smantellati e quando le resine espanse finiscono nelle discariche o negli inceneritori.

Da una parte occorre perciò sviluppare nuovi processi di smaltimento di tutti i prodotti che contengono questi gas nocivi; dall’altra parte occorre inventare nuovi agenti che svolgano le stesse funzioni dei gas vietati. Come si vede, nella corsa per evitare le violenze all’ambiente non c’è riposo, specialmente per i chimici e per una buona chimica.


martedì 14 maggio 2013

SM 3552 -- Bussi -- 2013


La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 14 maggio 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Nel quasi totale disinteresse generale, nei giorni scorsi si è svolto a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) un convegno organizzato dall’Osservatorio per le Politiche Ambientali della IIa Università di Napoli sulla ricerca delle fonti, cioè di archivi e documentazioni, per la storia dell’ambiente. Gli studiosi presenti (storici, ma anche chimici) hanno concluso con un appello rivolto alle istituzioni, alle imprese e soprattutto ai privati, a coloro che sono stati attivi nella denuncia e contestazione delle violenze ambientali, perché contribuiscano a salvare le testimonianze di tali eventi. Le persone che sono state attive nei movimenti ecologici e ambientalisti degli anni sessanta e settanta del Novecento sono ormai molto vecchie o sono morte.

domenica 28 aprile 2013

SM 3548 -- Il giallo del DNA

La Gazzetta del Mezzogiorno, domenica 28 aprile 2013

Giorgio Nebbia  nebbia@quipo.it

Il DNA, acido desosssi-ribonucleico, è una strana molecola formata dalla combinazione di
quattro molecole azotate, dette “basi”, con uno zucchero a cinque atomi di carbonio, il ribosio e con molecole di acido fosforico. Immaginate (i colleghi chimici mi perdonino la grossolanità della descrizione) una lunghissima catena costituita da una successione di molecole di uno zucchero con cinque atomi di carbonio, il ribosio, dotato di tre “ganci” a cui possono attaccarsi, altre molecole. A uno dei ganci si unisce una molecola di acido fosforico attaccata ad un'altra molecola di ribosio, al secondo si aggancia un’altra molecola di acido fosforico a sua volta attaccata a un’altra molecola di ribosio e al terzo gancio è attaccata una delle “basi” che, in un certo senso, penzola fuori dalla catena di molecole di ribosio e acido fosforico.

mercoledì 20 marzo 2013

Louis Maillard (1878-1936)


Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

“Me la dia ben cotta”: la pagnotta, o la pizza. “Me la cuocia bene”: la bistecca. Ma stia attento a non scaldare troppo, altrimenti escono quei fumi acri e irritanti, proprio come quelli del latte “bruciato”, quando esce dalla pentola sul fuoco. E poi guardate quella bella signora che si sta spalmando la crema abbronzante sulla pelle. Che cosa hanno in comune il cuoco del ristorante, il pizzaiolo, la massaia distratta e la signora ? Stanno conducendo, senza saperlo, un importante esperimento chimico, quello della reazione di Maillard, la più diffusa e antica della terra, da quando i nostri progenitori, millenni fa, hanno scoperto che la carne scaldata sul fuoco non solo poteva essere conservata più a lungo, ma diventava più appetibile e buona.

Louis Maillard era nato nel 1878 a Pont a Mousson, nella parte francese della Lorena (l’altra parte era stata annessa alla Germania dopo la guerra franco-prussiana del 1870-71). Maillard mostrò fin da giovane interesse per le scienze naturali, per la botanica e la geologia. Nel 1900 fu chiamato a tenere dei corsi di fisica e chimica all’Università di Nancy. Nel 1902 si trasferì all’Univetsità di Parigi come docente e come ricercatore, impegnato specialmente alla fisiologia. Nel Journal de Physiologie del 1912 apparve il lavoro che lo rese celebre: “Reazioni generali degli amminoacidi con gli zuccheri”.

lunedì 25 febbraio 2013

SM 3237 -- Sono orgoglioso di essere un chimico -- 2011

Anno Internazionale della Chimica 2011

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Nel parlare comune troppo spesso "chimica" è parolaccia e viene associata a cose sgradevoli: l'inquinamento chimico, gli additivi chimici, la diossina di Seveso, eccetera. Quasi contrapposta a qualcosa di virtuoso che sarebbe "naturale", come gli alimenti naturali (o "biologici"), l'acqua in bottiglia naturale, eccetera.

L'equivoco e la confusione nascono, a mio modesto parere, da vari fattori. Il primo ha le sue radici nella scuola dove la chimica come disciplina è relegata ad un ruolo secondario ed è spesso insegnata male, senza amore, come dimostra il ricordo angoscioso --- il ricordo delle "formule", spesso incomprensibili --- rimasto a coloro che hanno dovuto subirla per un anno in qualche scuola superiore. Capita così di leggere articoli, scritti da giornalisti certamente bravissimi, che il loro direttore licenzierebbe se non sapessero scrivere correttamente il nome di Freud o di Heidegger, i quali con assoluta sicumera parlano di celle fotovoltaiche al silicone (o di seni artificiali al silicio); o che parlano di una imposta sul carbone quando invece tale imposta è proporzionale al contenuto di carbonio presente nei vari combustibili fossili: petrolio, gas naturale e anche carbone, naturalmente: eccetera.

domenica 10 febbraio 2013

Courtois e la scoperta dello iodio

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Quando ero ragazzo una ferita veniva disinfettata con spennellature di tintura di iodio, un liquido di colore rosso che imparai a conoscere meglio quando studiai chimica. Lo iodio, con peso atomico 127, uno degli alogeni che si combinano volentieri con i metalli alcalini, dalla parte opposta della tabella di Mendeleev, è stato scoperto per caso da Bernard Courtois (1777-1838) nel 1811.

martedì 29 gennaio 2013

SM 3522 -- La lunga linea bianca -- 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Ricordate il film di John Ford del 1955 “The long gray line”, tradotto in italiano come “La lunga linea grigia” ? La lunga fila grigia era quella degli allievi dell’accademia militare americana di West Point e a me è sempre venuto in mente di far parte anch’io di una “lunga fila bianca” di chimici in camice bianco, quelli che mi hanno preceduto, persone che in parte ho conosciuto, di cui ho sentito parlare, i cui nomi ho trovato associati a qualche reazione o apparecchiatura o libro. Credo che quella del chimico sia una delle poche professione in cui “l’arte” viene trasferito attraverso i decenni mediante l’insegnamento diretto o quello indiretto offerto dai libri e dalle riviste.

domenica 27 gennaio 2013

La chimica dello sterminio

La Gazzetta del Mezzogiorno, 2 febbraio 1993 

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

La ricomparsa in superficie di un movimento nazista, che manifesta oggi la sua ideologia di violenza in forma rumorosa e visibile, induce a chiedersi in che cosa esso possa attrarre soprattutto dei giovani. Chi incanta oggi i ragazzi con un sogno neo-"nazista", capace di spingerli all'assalto di ebrei, immigrati, persone di colore, presenta l'epoca hitleriana come il periodo del trionfo della tecnica e dell'ordine, della moneta stabile e di riforme sociali in cui anche i lavoratori "stavano bene", il periodo di un "socialismo" realizzato all'insegna di una "nazione" forte, efficiente, organizzata, bianca, ariana. In questo quadro riesce facile aizzare i naziskin contro le persone appartenenti ai gruppi che allora si opponevano od erano estranei al grande disegno di un "nuovo ordine": ebrei, comunisti, zingari, omosessuali, neri, testimoni di Geova, diversi.

In realtà il nazionalsocialismo hitleriano era una forma di capitalismo nel quale gli imprenditori potevano permettersi di fare "star bene" i lavoratori, tedeschi e "ariani", "grazie" sia ai profitti assicurati dalle protezioni accordate dal governo ad una produzione, principalmente di carattere militare, ben remunerata, sia, negli anni quaranta, alla disponibilita' di mano d'opera schiava a prezzo zero, costituita dai "nemici": deportati, ebrei, prigionieri di guerra, abitanti dei territori occupati.

martedì 22 gennaio 2013

Chimici e parlamento

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 22 gennaio 2013 

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it 

Migliaia di persone sono candidate alle prossime elezioni per le due camere del Parlamento nazionale e per alcuni parlamenti regionali. E’ bello che così tante persone desiderino mettere le proprie competenze al servizio dei più nobili compiti della vita civile: scrivere ed approvare le leggi, specialmente quelle che stabiliscono come va speso il pubblico denaro, esercitare con interpellanze e interrogazioni il controllo sul comportamento del governo e delle pubbliche amministrazioni.

I candidati e gli eletti mettono a disposizione del paese e degli elettori le competenze e le esperienze della loro vita professionale: avvocati e operai, disabili e atleti, medici e scrittori, attori e agricoltori, professori e artigiani. E chimici ? Quanti chimici sono stati inseriti nelle liste elettorali, quanti verranno eletti ? Eppure i chimici hanno esperienze culturali e professionali, tratte dal lavoro nelle Università, nelle fabbriche, nei laboratori statali e privati, e avrebbero tante cose da dire in un Parlamento e anche nelle.assemblee delle amministrazioni locali.

Il Parlamento deve preparare, discutere e approvare un gran numero di leggi che hanno moltissimi aspetti chimici: si pensi all’adeguamento delle norme italiane alle direttive e ai regolamenti europei, ai rapporti dell’Italia con organismi internazionali e con i problemi del commercio internazionale. Se si legge la Gazzetta Ufficiale della Repubblica, che riporta e rende pubblico il risultato di tutte le norme approvate dal Parlamento, si vede che almeno un quinto di tali norme riguarda aspetti chimici: si parla di qualità della benzina, di prezzi dei carburanti, della composizione dei detersivi, della qualità dell’alluminio adatto per la fabbricazione delle pentole, delle sostanze ammesse o vietate come additivi dei cosmetici o degli alimenti o nei prodotti medicinali, dei concimi e pesticidi usati in agricoltura, dei pericoli a cui sono esposti i lavoratori quando maneggiano solventi o esplosivi, delle precauzioni necessarie nel trasporto delle sostanze corrosive o infiammabili, dei processi per diminuire l’inquinamento e per lo smaltimento dei rifiuti, eccetera. Sto parlando di norme che regolano l’economia, la quale a sua volta è basata sul commercio di “cose chimiche”.

L’importanza dei chimici in Parlamento e nelle assemblee elettive è stata riconosciuta in tutti i 150 anni della storia politica italiana. Alla nascita del regno d’Italia esisteva una Camera composta di deputati eletti (peraltro per molti decenni soltanto da una piccola parte della popolazione ed erano escluse le donne), provenienti in gran parte dalle classi agiate e dalle professioni liberali. Il Senato era invece costituito da persone nominate dal re; fra queste figurarono molti chimici come Stanislao Cannizzaro, Giacomo Ciamician (che é stato anche consigliere comunale a Bologna), Emanuele Paternò, dei quali si ricordano gli interventi nella discussione di problemi chimici relativi alle norme doganali, alla qualità del fosforo da impiegare nei fiammiferi, all’igiene nelle fabbriche, alle leggi sanitarie, eccetera.

Tutto questo è continuato fino al fascismo quando il Parlamento elettivo è stato chiuso e sostituito, per alcuni anni, dalla Camera dei fasci e delle corporazioni i cui componenti erano nominati dal governo fascista, e nella quale figurarono vari chimici, spesso espressioni dei gruppi di interessi, delle loro corporazioni, il che non escludeva che si occupassero di problemi della chimica e dell’industria. Si possono ricordare Giuseppe Bruni, Luigi Cambi, Felice De Carli, Pier Giovanni Garoglio (studioso di oli e grassi), Angelo Tarchi, Guido Donegani che, pur essendo laureato in ingegneria, era il presidente della più grande industria chimica italiana ed era già stato eletto nella Camera dei Deputati prima del fascismo. Nel periodo fascista il Senato praticamente non contava niente.

La vita è rinata dopo la Liberazione: nell’assemblea costituente fu eletto il chimico Michele Giua che era stato incarcerato molti anni per opposizione al fascismo e che fu rieletto varie volte al Senato in cui intervenne spesso sui problemi di sua competenza. Per quanto ne so negli anni successivi la presenza dei chimici è stata molto scarsa, da contare sulle dita delle mani. Eppure sono stati gli anni del vivace dibattito sul contenuto di fosforo dei detersivi, sui pesticidi, sulle caratteristiche dell’acqua potabile, sul contenuto di piombo delle benzine; sull’inquinamento delle falde idriche provocato dalle discariche di rifiuti tossici; furono gli anni dell’incidente al reattore di Chernobil e della contaminazione radioattiva degli alimenti, degli incidenti nelle fabbriche chimiche dell’ACNA in Liguria, della Farmoplant in Toscana, di Marghera, nel Veneto. E non si parla di chimica anche adesso, anche in Puglia, con l’inquinamento da diossine, PCB, benzopirene, con le emissioni di mercurio dalle centrali termoelettriche ? Sono certo che i chimici, se saranno eletti, potranno dare un contribuito, proprio in quanto chimici, al miglioramento delle leggi da cui dipendono l’ambiente, l’economia, il lavoro, cioè la vita.

lunedì 14 gennaio 2013

SM 2863a -- Breve storia dei fiammiferi -- 2007

Chimica News, n. 19, settembre 2007 --- Inquinamento, 49, (96), settembre 2007

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

La storia dei fiammiferi è lunga e complicata, fatta di piccole e grandi invenzioni che davano vita spesso a piccole e grandi imprese industriali. Questa storia comincia nel 1827 con l'invenzione, da parte dell'inglese John Walker, del fiammifero a sfregamento (un bastoncino di legno con una capoccia contenente una miscela di solfuro di antimonio e di clorato di potassio), seguita, tre anni dopo, dal perfezionamento, dovuto a Sauria, Kammerer, e al geniale inventore ebreo di Fossano, in Piemonte, Sansone Valobra, consistente nella sostituzione del solfuro di antimonio con una miscela di zolfo e fosforo bianco. Valobra impiantò a Napoli la prima fabbrica di fiammiferi italiana e inventò, successivamente, anche i fiammiferi con lo stelo di cera, i “cerini”. La storia finisce nel 1994 con la chiusura, per riduzione del mercato, dell'ultima grande fabbrica inglese di fiammiferi, la famosa Bryant & May di Liverpool.

Di certo l'invenzione del fiammifero ha avuto conseguenze rivoluzionarie e liberatorie: ciascun individuo poteva accendere lampade e fuochi senza dover dipendere da altri, portando con se la fiamma, come ben dice il nome italiano del prezioso bastoncino di legno. Con la produzione dei fiammiferi nacque inoltre un importante segmento del "sistema di fabbrica" ottocentesco italiano, con i relativi problemi, primo fra tutti lo sfruttamento dei lavoratori, donne, uomini e ragazzi, particolarmente grave in un'industria che trattava sostanze altamente pericolose e tossiche come il fosforo bianco e lo stesso zolfo.

Al lettore curioso raccomando la lettura del libro della prof. Nicoletta Nicolini, dell’Università di Roma, intitolato: “Il pane attossicato. Storia dell’industria dei fiammiferi in Italia”, pubblicato da una difficilmente accessibile “Documentazione Scientifica Editrice”, di Bologna (non c’è neanche l’indirizzo), uno degli innumerevoli libri sommersi in cui finisce tanta parte della pur preziosa ricerca anche storico-scientifica del nostro paese.

I primi fiammiferi industriali erano costituiti da bacchettine di legno morbido con una delle estremità ricoperta, come si accennava prima, di zolfo e fosforo bianco che si accendeva per sfregamento su una superficie ruvida. Il velenoso fosforo bianco veniva assorbito dagli operai, per lo più ragazze e bambini, durante la lavorazione consistente nell’immersione dei bastoncini in una miscela liquida contenente il fosforo.

Negli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento, quando la struttura delle manifatture di fiammiferi era arretrata e artigianale, medici generosi e attenti alla salute pubblica come Bellini e Zambelli avevano scritto e denunciato la pericolosità dell'uso del fosforo bianco nelle fabbriche dei fiammiferi e nei fiammiferi che arrivavano al pubblico, ma potenti interessi finanziari avevano spiegato per decenni al potere politico che sarebbe stato altamente lesivo degli interessi italiani sostituire il fosforo bianco col fosforo rosso, che pure, in altri paesi, era prodotto e usato per i fiammiferi più "sicuri". La scusa è sempre la stessa: l’impiego nel ciclo produttivo del fosforo rosso, più costoso, avrebbe danneggiato --- sostenevano gli imprenditori --- gli stessi operai perché sarebbero aumentati i costi di produzione e molte fabbriche sarebbero state costrette a licenziare molti dipendenti. Gli stessi interessi riuscirono ad evitare che le fabbriche di fiammiferi fossero incluse fra le industrie “insalubri”, da localizzare nelle periferie, quando nel 1887-89 fu emanata la prima legge italiana sulla tutela dell’igiene e sanità. Portavoce degli interessi economici fu, negli anni settanta e ottanta dell’Ottocento, il grande chimico Emanuele Paternò, cattedratico, massone, senatore, presidente dei laboratori e delle Commissioni sanitarie che decidevano o davano consigli al governo.

Davanti all'innegabile pericolosità dei fiammiferi al fosforo bianco i paesi industriali erano arrivati, all’inizio del Novecento, ad un accordo internazionale che, difendendo la salute, ponesse, nello stesso tempo, sullo stesso piano di concorrenza, i molti produttori di fiammiferi. Alla convenzione di Berna del 1906 aderì anche l’Italia, ma l’adeguamento dell’Italia ai relativi impegni venne rimandata fino al luglio 1915; il “provvidenziale” (per gli industriali dei fiammiferi) scoppio della prima guerra mondiale indusse il governo a rimandare a tempi migliori una legge così “secondaria”, come quella da cui dipendeva la salute di migliaia di lavoratori e di milioni di compratori di fiammiferi ! E poiché c’era sempre qualcosa da fare, più importante, la legge che vietava l'uso nei fiammiferi del fosforo bianco, entrò in vigore nel 1924 (diciotto anni dopo la convenzione di Berna).

Per un intero secolo i fiammiferi sono stati prodotti in centinaia di fabbrichette, sparse nel territorio italiano, con accesso ad un limitato mercato locale, escluse dalle grandi correnti di importazione o esportazione. La storia e le statistiche delle fabbriche dei fiammiferi offre uno spaccato, piccolo, ma molto significativo, della transizione da una fase artigianale di manifatture tecnicamente e commercialmente arretrate, alla formazione di gruppi più grandi di fabbricanti di fiammiferi, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, gli imprenditori di maggiori dimensioni ampliano i propri interessi, dalla seta, ai cotonifici, alla meccanica, all'industria chimica, alla fabbricazione dei fiammiferi, appunto, ai giornali, alle banche, e possono, con un peso adeguato, con le giuste amicizie di logge e salotti, trattare col governo per ottenere facilitazioni, dazi contro le importazioni, protezioni, favori.

I piccoli produttori cercarono di consorziarsi contro i grandi gruppi, ottennero, in un lungo scontro negli anni 1894-1898, qualche ascolto da qualche distratto parlamentare, ma furono gradualmente esclusi dalla produzione e dal commercio dei fiammiferi. Le cose peggiorarono con l’introduzione, nel dicembre 1894, di una “tassa” sui fiammiferi, resa urgentemente necessaria per sanare il deficit del bilancio che si stava ingrandendo a causa della costosa guerra d’Africa. Contro tale tassa intervennero gli industriali che minacciarono la chiusura delle fabbriche e i lavoratori attuarono uno sciopero.

Il Parlamento non poté approvare o bocciare il decreto fiscale perché il re lo tenne chiuso nel cassetto fino alle elezioni del maggio 1895, vinte da Crispi. La prima reazione violenta alla tassa sui fiammiferi si era intanto calmata e il Parlamento discusse, nel luglio e agosto, il decreto legge fiscale; il resoconto del dibattito parlamentare --- dettagliatamente analizzato nel libro della prof. Nicolini --- è interessante non tanto per le sue conclusioni (la tassa sui fiammiferi c'è e resta), ma perché consente di dare uno sguardo allo scontro fra i parlamentari "rappresentanti" dei vari gruppi di pressione.

Intanto si verificano grandi eventi: in concomitanza col dibattito sulle tasse, le truppe italiane vittoriose annettono il Tigrè alla colonia Eritrea: gran rigurgito di orgoglio nazionale e nuove spese per la guerra. L'entusiasmo dura poco: il 7 dicembre 1895 c'è la sconfitta dell'Amba  Alagi; il 22 gennaio 1896 viene abbandonata Macallè e il 1 marzo gli italiani sono sconfitti ad Adua: nuove spese. La  sventurata guerra d'Africa si conclude alla fine del 1896 con una pace con l'Abissinia, lasciandosi alle spalle dolori, lutti, lacerazioni sociali e altre voragini nel bilancio statale.

I piccoli artigiani produttori di fiammiferi tentano ancora di consorziarsi per chiedere al governo una diminuzione della tassa sui fiammiferi, ma il governo ha disperato bisogno di altri soldi da rastrellare con altre tasse: nel maggio 1898 reprime nel sangue, con i cannoni di Bava Beccaris, la protesta dei lavoratori di Milano contro il caro-pane; per quanto riguarda i fiammiferi non trova di meglio, nel dicembre del 1898, che aumentare ulteriormente la già contestatissima tassa.

Questa volta scatta la serrata dei produttori. La straordinaria ricostruzione del dibattito parlamentare, degli scioperi e delle serrate attraverso i verbali delle sedute, i resoconti della stampa e i rapporti di polizia, la storia dei tentativi per far nascere il "consorzio" fra piccoli produttori di fiammiferi, o il cartello dei grandi produttori uniti nella società "Fabbriche riunite", offrono un quadro ben preciso della società italiana all'alba del ventesimo secolo,  dei suoi vizi, corruzioni e stupidità. Le grandi avventure internazionali, la concorrenza e lo scontro fra giganti finanziari e industriali finiscono così per influenzare la vita e il destino di piccoli inconsapevoli fiammiferai siciliani o marchigiani o piemontesi, protagonisti della "storia minore", ai quali la tassa sui fiammiferi fa aumentare di qualche lira i costi di produzione e fa diminuire gli utili.

La lettura del libro offre, infine, l'occasione per riconoscere che la crisi di questa prima industrializzazione italiana, abituata ad invocare il protezionismo governativo attraverso dazi sulle importazioni e leggi compiacenti, anche se danneggiavano la salute dei cittadini, ha le  sue radici nell'ignoranza, oltre che nell'avidità. L'autrice mette bene in evidenza l'arretratezza, nell’Ottocento, degli studi di chimica pura e di chimica industriale, la povertà di accademie e centri di cultura tecnico-scientifica, che già fiorivano in Francia, Inghilterra, Germania, Austria, Russia. L'avidità e l'ignoranza sono state le vere cause delle morti nelle fabbriche e dei fallimenti industriali.

Il prezzo che una società paga per questa povertà di cultura imprenditoriale e tecnica è il fallimento delle imprese. Nel caso dei fiammiferi la miopia degli imprenditori fino ai primi decenni del Novecento portò al ritardo nelle innovazioni tecniche che si stavano diffondendo nel mondo dove il fosforo rosso sostituì il fosforo bianco, i vecchi fiammiferi furono sostituiti da quelli di sicurezza, o “svedesi” nei quali la capocchia del fiammifero è (ormai si può dire, era) formata da una miscela di sostanze ossidanti, come clorato di potassio, zolfo e resina e si accendeva per sfregamento su una listarella di carta ruvida incollata alle pareti esterne delle scatole e contenente una pasta di fosforo rosso e trisolfuro di antimonio.

L'apparentemente limitata storia della produzione dei fiammiferi in Italia, fino alla prima metà del Novecento, ha così una sua morale di carattere generale e valida ancora oggi. Produrre merci è sempre stata un'operazione complicata e può essere svolta soltanto se si diffonde una cultura delle merci e dei processi produttivi. E' la conoscenza che dissolve i fantasmi oscuri della paura: la paura delle popolazioni verso la "fabbrica" che non si sa che cosa produce, quali fumi butta nell'aria, la paura dei lavoratori che non sanno che cosa maneggiano e quali pericoli affrontano, la paura degli imprenditori verso qualsiasi richiesta di riforme e di progresso.

Se dunque gli imprenditori vogliono continuare a produrre merci --- merci che occorrono, che soddisfano bisogni umani, che spesso sono liberatorie, come sono stati liberatorii i fiammiferi  nel secolo e mezzo passato --- devono aumentare la propria cultura e devono imparare a parlare al pubblico e ai lavoratori, non col linguaggio furbesco della pubblicità, ma con quello di una cultura industriale, capace anche di essere orgogliosa, quando occorre, della propria bravura e intraprendenza.

Questa cultura del fare, del produrre, deve entrare anche nelle aule universitarie, non per preparare fedeli e silenziosi servitori del potere finanziario, ma per diffondere capacità critica, senso del servizio alla collettività, sia nella pubblica amministrazione, sia nelle fabbriche. La stessa cultura dovrebbe spingere i legislatori ad essere meno pavidi e prudenti nello scrivere le leggi da cui dipendono la salute e la sicurezza dei cittadini e spingere i pubblici amministratori ad essere un po' più coraggiosi nel farle rispettare.