martedì 14 maggio 2013

SM 3552 -- Bussi -- 2013


La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 14 maggio 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Nel quasi totale disinteresse generale, nei giorni scorsi si è svolto a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) un convegno organizzato dall’Osservatorio per le Politiche Ambientali della IIa Università di Napoli sulla ricerca delle fonti, cioè di archivi e documentazioni, per la storia dell’ambiente. Gli studiosi presenti (storici, ma anche chimici) hanno concluso con un appello rivolto alle istituzioni, alle imprese e soprattutto ai privati, a coloro che sono stati attivi nella denuncia e contestazione delle violenze ambientali, perché contribuiscano a salvare le testimonianze di tali eventi. Le persone che sono state attive nei movimenti ecologici e ambientalisti degli anni sessanta e settanta del Novecento sono ormai molto vecchie o sono morte.


Alcune fondazioni private, come la Fondazione Micheletti di Brescia, il Centro per l’ambiente e l’archivio Cederna a Roma, già da anni stanno raccogliendo libri e documenti e archivi prima che vengano dispersi o distrutti; gli archivi degli inquinatori o non esistono o sono difficilmente accessibili. Dovrebbero essere lo Stato o gli enti pubblici a raccogliere la documentazione sugli inquinamenti e sulle discariche di sostanze tossiche, tanto più che tali documenti sarebbero di grande utilità sia per le operazioni di difesa dell’ambiente e di bonifica dei siti inquinati, sia per le iniziative della magistratura alla ricerca delle responsabilità. I “casi” da considerare sono numerosi e coprono quasi tutti gli episodi della storia industriale italiana; da quelli celebri come Seveso o Marghera o Manfredonia o Taranto, a molti eventi minori ma altrettanto dannosi per l’ambiente.

Un esempio è offerto dai processi in corso contro i responsabili di una discarica di rifiuti
tossici industriali a Bussi, un piccolo centro abruzzese sul fiume Tirino, un affluente del fiume Pescara. Nelle strette valli del bacino idrografico Aterno-Pescara, che raccoglie le acque dei vicini massicci montuosi e le porta fino al mare, vicino la città di Pescara, sono sorte varie centrali idroelettriche la cui energia (era chiamata il ”carbone bianco” nazionale, in un paese privo di carbone) ha attratto, all’inizio del Novecento, le prime industrie chimiche italiane. Sono così sorti, quasi contemporaneamente, in provincia di Pescara, i poli industriali di Bussi sul Tirino e, a una diecina di chilometri più a valle, di Piano d’Orta, alla confluenza del torrente Orta col Pescara. Per inciso qui ha funzionato, dal 1870 al 1890, una piccola raffineria di petrolio estratto dai giacimenti locali.

A Piano d’Orta (da non confondere con il Lago d’Orta, in Piemonte, sulle cui rive sorse una fabbrica della fibra artificiale “bemberg”, che ha inquinato il piccolo lago con scarichi di rame e ammoniaca) nel 1901 fu installata una fabbrica di acido solforico partendo dalla pirite della Maremma, e di concimi fosfatici; qui fu installata la prima fabbrica italiana, la seconda nel mondo, del concime azotato calciocianammide. Seguirono molte altre produzioni chimiche, anche di interesse militare, tanto che Piano d’Orta subì 36 bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. Gli impianti furono portati via dai tedeschi nel 1944, la fabbrica fu poi ricostruita ma fu chiusa nel 1965 e ora posta sotto sequestro.

Di questa lunga storia di lavoro a Piano d’Orta resta la testimonianza nel nome della Piazza Azoto, credo l’unica al mondo intestata ad un elemento chimico, e nel nome del locale “Teatro Pirite”. Ci furono anche inquinamenti e nel 1909 un agricoltore fece causa alla società chimica perché la sue viti erano danneggiate dai fumi contenenti acido fluoridrico. Una diecina di chilometri più a monte, a Bussi, nei primissimi anni del Novecento, attratte anche qui dalle centrali idroelettriche, furono installate fabbriche elettrochimiche che produssero idrato di sodio e cloro, poi prodotti clorurati come gas asfissianti durante la prima e seconda guerra mondiale, poi concimi artificiali azotati.

Dopo la seconda guerra mondiale a Bussi sono stati prodotti diecine di prodotti chimici, per lo più derivati del cloro e metalli tossici, per milioni di tonnellate. E, purtroppo, molte scorie e residui tossici sono stati smaltiti in due discariche di centinaia di migliaia di metri cubi. La scoperta di queste discariche avvenne nel 2007 ad opera del Corpo Forestale dello Stato e ne sono seguiti denunce e processi e impegni per la bonifica, finora senza esito. Le sostanze tossiche colate da queste discariche hanno inquinato le acque del Pescara e delle falde idriche sotterranee che alimentano gli acquedotti di Chiesti e Pescara e di molti altri paesi; alcuni inquinanti sono prodotti cancerogeni presenti in quantità superiori ai limiti massimi ammessi dalle leggi.

Il “caso Bussi” è stato denunciato anche in importanti trasmissioni televisive nazionali, come quelle di Michele Santoro nel maggio 2008 e di Milena Gabbanelli nel dicembre 2012. Per ora la più grande delle discariche è stata coperta con dei teli, ma i veleni continuano a fuoriuscire e a correre a valle. Per migliori informazioni, anche ai fini delle bonifiche, occorrerebbe conoscere quali prodotti sono stati fabbricati a Bussi e Piano d’Orta del corso di un secolo, quali materie sono state trattate. Studiosi locali hanno raccolto e rese pubbliche molte notizie, ma questa pagina poco nota della storia industriale e ambientale italiana meriterebbe ben maggiore attenzione. Di qui l’importanza del lavoro degli storici, a cui si faceva cenno all’inizio.

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