lunedì 6 gennaio 2014

SM 3621 -- Il glutammato e l'EXPO 2015 -- 2014

Il blog della Società Chimica Italiana, 6 gennaio 2014, http://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/01/06/umami/

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L’Italia sta correndo a gambe levate verso l’Esposizione mondiale di Milano, l’Expo 2015 che aprirà i battenti fra meno di cinquecento giorni e che si pensa attirerà a Milano e in Italia, dal 1 maggio al 31 ottobre 2015, molti milioni di persone e molti miliardi di euro. Il tema sarà: “Nutrire il pianeta. Energia per la vita” e sottintende che l’Italia esporrà al mondo i suoi successi nel campo dei prodotti alimentari, la principale fonte di esportazione ”di eccellenza”, come la chiamano. E’ una occasione per ricordare che la nutrizione, più ancora che altre attività umane dipende dalla chimica, che gli alimenti “sono chimica” e che la chimica è la protagonista del complesso ciclo produttivo che comincia con Sole, continua nei campi e negli allevamenti zootecnici, passa attraverso le industrie che trasformano vegetali e corpi animali in prodotti alimentari, poi attraversa i processi di conservazione e distribuzione fino ai negozi e alle famiglie e alle mense e che continua ancora con lo smaltimento di milioni di tonnellate ogni anno di rifiuti agricoli, zootecnici, industriali e domestici.


Approfittiamone anche noi come Società Chimica Italiana per parlare della centralità della chimica fra in temi dell’Expo e propongo di cominciare con una piccola storia cominciata nel 1908 quando un chimico giapponese si mise a studiare la ragione del particolare gradevole sapore, chiamato umami, di alcune pietanze a base di alghe, fra cui il konbu, tipiche della cucina del suo paese. Gli inizi del ventesimo secolo sono stati molto importanti per il Giappone, uscito da una lunga notte di condizioni quasi medievali per entrare nella società moderna e industrializzata, con fabbriche metallurgiche e meccaniche e chimiche e con università che mandavano i loro studenti e professori a perfezionarsi in Europa.

E’ stato il professor Kikunae Ikeda (1864-1936) dell’Università di Tokyo a scoprire che il sapore umami era dovuto ad una particolare sostanza, l’acido glutammico, uno della ventina di amminoacidi principali presenti in tutte le proteine. Ikeda pubblicò la sua scoperta in un giornale giapponese in giapponese, ma subito dopo, nel 1912, riferì i risultati dei suoi studi nel corso dell’ottavo Congresso internazionale di Chimica Applicata che vide riuniti a New York tutti i più importanti chimici del mondo.

Nel frattempo Ikeda aveva costituito una società per la produzione industriale dell’acido glutammico in vista della sua addizione, sotto forma di sale di sodio, di glutammato monosodico, come agente esaltatore del sapore, a un gran numero di alimenti. Per molti anni il consumo rimase limitato al Giappone e alla Cina; negli anni trenta del Novecento il glutammato cominciò ad essere conosciuto negli Stati Uniti e, dopo la seconda guerra mondiale, la sua richiesta e la sua produzione si diffusero rapidamente anche in Europa dove cominciavano ad essere immessi in commercio dei “preparati per brodo”, i “dadi”, che richiedevano appunto come integratore il glutammato.

Il glutammato monosodico può essere prodotto con vari processi. Il primo, quello utilizzato da Ikeda, consiste nel trattamento delle proteine della soia, del frumento e del mais con acidi che scompongono le proteine liberando i vari amminoacidi presenti nelle loro molecole. Il glutine, il complesso proteico del frumento e del mais, contiene dal 15 al 20 % di acido glutammico ed è un sottoprodotto di alcune lavorazioni industriali, per esempio della produzione dell’amido. L’acido glutammico viene separato dagli altri amminoacidi e recuperato come sale di sodio molto puro che si presenta come una polvere cristallina simile al sale.
Un secondo processo, che fu seguito per molti anni negli Stati Uniti, in Europa, e anche in Italia, utilizzava come materia prima un sottoprodotto della lavorazione dello zucchero di barbabietola. Dalle barbabietola lo zucchero viene estratto con acqua calda; si ottiene una soluzione da cui si recupero gran parte dello zucchero puro; una parte però resta in una soluzione di colore bruno, viscosa, il melasso; oggi si tratta di archeologia industriale perché gli zuccherifici sono stati chiusi uno dopo l’altro, ma mezzo secolo fa la richiesta di zucchero era così elevata che veniva recuperato anche quello presente nel melasso; restava un liquido contenente la glutammina, l’ammide dell’acido glutammico, OC(NH2)-CH2-CH2-CH(NH2)COOH , che poteva essere ulteriormente trattato per separare, con resine a scambio ionico, l’acido glutammico in ragione di circa il 4 percento rispetto al liquido di dezuccherazione.

Ma anche questo processo era poco conveniente e intorno al 1950 l’industria giapponese, che praticamente deteneva il monopolio della tecnologia del glutammato, mise a punto un processo di fermentazione; adatti microrganismi, addizionati ad una soluzione di zuccheri, producevano acido glutammico. Si tratta della tecnologia ormai usata in tutto il mondo. Negli stessi anni cinquanta anche in Italia aumentò rapidamente la richiesta di glutammato monosodico che per legge doveva essere aggiunto ai preparati per brodo sotto forma del sale monosodico con una molecola di acqua di cristallizzazione, NaOOC-CH2-CH2-CH(NH2)COOH.H2O, in ragione di circa il 13 percento, equivalente al 10 % di acido glutammico. Sorsero così varie fabbriche di glutammato, a Bottrighe nel Veneto, Fontanellato in Emilia, a Casei Gerola in Lombardia; alcune utilizzavano il processo di idrolisi del glutine, altre recuperavano l’acido glutammico dai sottoprodotti dell’industria dello zucchero, che allora era fiorente in Italia, altre lo producevano per via microbiologica, oggi tutte chiuse.

Nell’ambito dell’industrializzazione del Mezzogiorno nel 1965 fu costruita a Manfredonia la fabbrica Insud-Ajinomoto che avrebbe potuto utilizzare il melasso, il sottoprodotto dei vicini zuccherifici della Capitanata, e avviare la Puglia sulla via delle biotecnologie, allora ai primi passi. La fabbrica di glutammato, progettata per una produzione di 5000 tonnellate all’anno,  funzionò dal 1965 al 1977, con vari inconvenienti, fra cui la scoperta che il melasso, la materia prima, prodotta negli zuccherifici pugliesi, non era adatto per la produzione tanto che ha dovuto per anni essere importato dall’estero. Finché, dopo pochi anni, i giapponesi, padroni della tecnologia, si sono presi i loro batteri e sono tornati a casa, lasciando abbandonato alla corrosione uno stabilimento che avrebbe potuto essere di avanguardia: un esempio di impresa industriale avviata, con incentivi di pubblico denaro, senza adeguati studi preventivi del ciclo produttivo e delle materie necessarie.

Per inciso, come esempio di errori di pianificazione industriale, costati pubblico denaro e delusioni di occupazione, si può ricordare che la Cassa per il Mezzogiorno aveva finanziato, oltre alla fabbrica di Manfredonia, un'altra fabbrica di glutammato, della stessa capacità produttiva, 5.000 tonnellate all’anno, a Brindisi (chiusa quasi subito a trasformata in fabbrica di antibiotici).

Oggi il glutammato usato in Italia viene importato e ormai nel mondo la sua produzione, circa un milione di tonnellate all’anno, è limitata a Giappone, Cina, Taiwan. Negli anni sessanta del secolo scorso il glutammato è stato al centro di polemiche; alcuni studiosi hanno creduto di osservare effetti tossici dell’uso prolungato di glutammato ma i risultati sono rimasti controversi e comunque la quantità che se ne assume con un dado per brodo del peso di 10 grammi è circa un grammo, più o meno la stessa presente nel glutine di 100 grammi di pasta alimentare di grano duro.

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