domenica 2 febbraio 2014

B. Leoci, Stanislao Cannizzaro, scienziato e politico multiforme

Benito Leoci, Università del Salento bleoci@yahoo.it

La prima volta che incontrai Cannizzaro, o meglio questo nome, fu durante la preparazione per l’esame di Chimica Generale I, così come sarà accaduto a tutti gli studenti dei corsi universitari di chimica. Certamente mi ero imbattuto in questo nome in precedenza, alle scuole medie superiori, ma nella memoria non mi era rimasta alcuna traccia. Fra i libri consigliati allora all’Università di Cagliari, era l’inizio degli anni ’60, vi era “il Bruni”, la cui prima edizione risaliva al 1921. Nella prefazione a questa edizione il Bruni ricordava che nel decidere l’ordine da dare al corso di Chimica Generale (tenere separate o meno la parte teorica da quella descrittiva) si era attenuto all’«esempio e ammaestramento di Cannizzaro e di Ciamician».


Nella 10° edizione del 1957, da me utilizzata, alle pagine 34-35 viene illustrata la cosiddetta “Regola di Cannizzaro” e cioè il sistema da seguire per determinare il peso atomico degli elementi. Regola che lo stesso Cannizzaro illustra in un suo scritto del 1858 dal titolo “Sunto di un corso di filosofia chimica” (ripubblicato nel 1991 con i tipi della Sellerio editore di Palermo, insieme ad un commento di Luigi Cerruti intitolato “Il luogo del «Sunto»”), che ripete a Karlsruhe due anni dopo, durante un congresso di chimici europei organizzato da Kekulè (lo stesso che durante un sogno immagina come doveva essere la struttura del benzolo: sei scimmie che si tenevano per mano per formare un esagono). Dal Bruni, Cannizzaro viene ricordato anche a proposito di “dismutazioni” o “ossido-riduzioni” e cioè in particolare per la reazione fra l’aldeide benzoica e l’idrossido di potassio, nota anche come la «reazione di Cannizzaro». Tutto qui.

E’ evidente che dalla lettura di queste scarne note, nessuna curiosità poteva nascere sul conto di questo scienziato, né sul conto delle numerose altre menti, pur ricordate dal Bruni e dagli altri testi di chimica, che nel corso del 18° e 19 secolo avevano contribuito allo sviluppo della chimica. Cosa c’era di notevole ed eclatante nel suggerimento di un sistema utile per individuare gli atomi? Poiché non inquadrato nel contesto storico degli avvenimenti, senza l’evidenza dello stato delle conoscenze scientifiche di quel periodo, senza conoscere le teorie circolanti, i dubbi e le perplessità che attanagliavano i chimici dell’epoca, era difficile nutrire qualsiasi curiosità e valutare in pieno l’importanza della regola di Cannizzaro come anche del lavoro svolto dai suoi contemporanei: da Avogadro a Berthelot, da Berzelius a Dumas, a Kekulè, da Mendeleev, a Leblanc, Liebig, Meyer, tanto per citare i primi che vengono in mente. Non si trattava (e non si tratta) solo di dare maggiore rilievo alla storia della chimica o delle scienze in generale, come fine a se stessa, ma della necessità di penetrare maggiormente nell’evoluzione e nelle necessità della ricerca, sempre caratterizzata da enorme lavoro e dal totale impegno dei ricercatori oltre che dalla loro fortuna e intelligenza.

Il secondo incontro con Cannizzaro fu del tutto imprevedibile e casuale. Nel 1966 mi trovavo a San Pietroburgo (l’antico nome riacquistato da poco tempo) quando fui sollecitato a visitare la locale Università statale in quanto attratto da una curiosa notizia: ospitava la più lunga biblioteca del mondo. Fondata nel 1783 accoglieva ben 7 milioni di volumi. Occorreva dare un’occhiata. La visita però fu deludente. Si trattava di un gran numero di scaffali pieni di libri allineati in un corridoio molto lungo. Non era una vera e propria biblioteca. Percorrendo questo corridoio però notai un etichetta su una porta che recava la scritta “Менделéев музей” (Museo di Mendeleev). Chiesi di poterlo visitare ad una signora che era nei pressi, molto stupita del mio interesse.

Probabilmente non era una richiesta frequente, ma Mendeleev era uno dei miei eroi preferiti. Grazie alla sua tavola periodica avevo potuto memorizzare più facilmente molte nozioni del corso di Chimica Generale e Inorganica. In una delle stanze dove Mendeleev aveva vissuto e lavorato per oltre 30 anni, un tavolino rotondo coperto da una tovaglia bianca colpì la mia attenzione oltre alle numerose bacheche contenenti i manoscritti dello scienziato, pieni dei simboli degli elementi chimici allora conosciuti: erano i muti testimoni degli innumerevoli tentativi condotti per formulare una tavola degli elementi credibile e razionale. La tovaglia era piena di firme apposte dai visitatori di Mendeleev, collezionate dalla moglie, come spiegò la custode. Fra questi autografi c’era quello di Cannizzaro, unico Italiano della raccolta. Non vi era la data, ma verosimilmente doveva essere stato apposto dopo il congresso di Karlsruhe, quando i due si incontrano accomunati dallo stesso interesse per gli atomi, sia pure per motivi diversi. Il fatto sorprendente è che Mendeleev, al contrario di Cannizzaro, non credeva all’esistenza degli atomi (così come tanti altri del tempo: H. E. Roscoe, W. Ostwald, il grande Dumas, ecc.) nonostante le sue ricerche per ordinarli in una tavola in funzione di alcune loro caratteristiche.

Ma chi era dunque questo Cannizzaro, che si era spinto fino alla lontana San Pietroburgo da Palermo o da Napoli o Genova, certamente via mare? E perché il suo intervento a Karlsruhe aveva avuto tanto successo e acceso numerosi dibattiti? Negli anni ’30 del 19° secolo, nel settore della chimica-fisica, allora indistinguibili, nessuno sapeva come configurare molecole ed atomi, pesi atomici e pesi equivalenti. Lo stesso Dalton, che pure aveva suggerito, sulla scia delle intuizioni di Lavoisier, che esistevano tanti tipi di atomi quanti erano gli elementi, ognuno caratterizzato da un peso atomico, non aveva compreso la differenza fra atomi e molecole, sicchè pensava, che la molecola dell’acqua fosse formata da un atomo di idrogeno legato a uno di ossigeno e che per esempio l’ammoniaca fosse formata da un atomo di azoto legato ad uno di idrogeno. Se invece dei pesi si consideravano i volumi le cose cambiavano. Gay-Lussac aveva appena dimostrato che l’acqua, per esempio, era formata da due volumi di idrogeno e uno di ossigeno. Questa differenza fa pensare a Kekulè che esistevano due tipi di molecole: quelle fisiche e quelle chimiche. Secondo Avogadro, poiché volumi uguali di gas dovevano contenere ugual numero di molecole, derivava che le molecole di idrogeno e di ossigeno erano necessariamente composte da due atomi ciascuno. Dalla loro combinazione si formavano due molecole di acqua composte ciascuna da tre atomi (due di idrogeno e uno di ossigeno).

Avogadro quindi aveva dato una soluzione al problema, ma nessuno l’aveva capito, tantomeno Dalton. In definitiva in quei primi decenni del 1800, regnava un gran confusione anche perché molti pesi atomici erano errati e di alcuni composti erano state proposte numerose formule. Se si da un’occhiata a un volume scritto da Kekulè nel 1859 (Lehrbuch der organische Chemie), si scoprono ben 19 formule dell’acido acetico, proposte da 12 diversi studiosi, nell’ambito di 6 teorie suggerite dagli stessi. Si erano dunque accumulati molti dati, formulate varie teorie e acquisite diverse conoscenze che occorreva interpretare e ordinare secondo logiche accettabili. E’ facile quindi comprendere perché Kekulè, nell’autunno del 1859, propone a Karl Weltzien (suo amico e professore di chimica alla “Technische Hochschule” di Karlsruhe) di organizzare un incontro fra i chimici europei per discutere insieme di vari problemi (Definizione delle nozioni chimiche importanti – come quelle che sono espresse dalle parole – atomo, molecola, equivalente, atomo-basico. Esame della questione degli equivalenti e delle formule chimiche. Stabilimento d’una notazione o nomenclatura uniforme).

All’iniziativa furono associati Charles Adolphe Wurtz (in quel periodo occupava la cattedra di “Farmacia e chimica organica” all’Università di Parigi) e August Wilhelm Hofmann (professore in quel periodo di “Chimica pratica” a Londra). Piria, uno dei più giovani e brillanti scienziati del momento in Italia (si era laureato in medicina a Napoli e aveva studiato chimica con Dumas a Parigi), riceve l’invito da Wurtz che naturalmente accetta coinvolgendo anche Cannizzaro (firmando al suo posto) ignaro di tutto. Piria lo informa successivamente, scusandosi per l’iniziativa. Viene invitato anche M. F. Malaguti che da più di 30 anni era a Rennes (ove insegnava Chimica generale alla Facoltà di Scienze della locale Università). In definitiva gli Italiani firmatari per accettazione dell’invito erano solo tre su 45, e tutti e tre si consideravano esuli (Piria di origine calabrese viveva a Torino, Cannizzaro di origine siciliana viveva a Genova e Malaguti originario di Pregatto un paese vicino Bologna viveva a Rennes).

A Karlsruhe giungono 140 scienziati. Mancano però i vertici della chimica inglese e lo stesso Hofmann. Manca Piria, ma c’è Angelo Pavesi (laureato in giurisprudenza, in seguito professore di Chimica farmaceutica a Pavia). La discussione inizia sulla nozione di molecola e atomo e sono invitati a prendere la parola Kekulè e Cannizzaro. Kekulè insiste sulla sua idea dell’esistenza dei due tipi di molecole prima citate. Cannizzaro la respinge: esistono solo le molecole chimiche ed espone il suo sistema di misurazione dei pesi atomici come derivazione della legge di Avogadro. La distinzione fra molecole ed atomi appare ora chiara alla maggioranza dei presenti. Kekulè e pochi altri restano nel dubbio. Alla fine dei lavori Pavesi distribuisce ai presenti una copia del “Sunto”. Il congresso si chiude con la convinzione dei più che il principale problema all’ordine del giorno era stato risolto, grazie all’intervento di questo oscuro scienziato che non era stato nemmeno invitato dagli organizzatori. Al suo rientro e Gent, Kekulè riceve da Lothar Meyer una lettera con l’invito a prendere atto dell’esattezza delle tesi di Cannizzaro. Ritorna la domanda. Chi era questo studioso che si era trovato a discutere al congresso di Karlsruhe con i maggiori scienziati europei, in quanto inviato da Piria che non lo aveva nemmeno interpellato?

Come si legge nei suoi appunti autobiografici, che qui riassumiamo, Cannizzaro nasce a Palermo il 1826, ultimo di 9 figli (si noti che Mendeleev era ultimo di 14 figli). Il padre, Mariano, era al momento Direttore Generale della Polizia di Sicilia; l’anno successivo assume la carica di Presidente della Gran Corte dei conti di Sicilia. Durante i suoi studi nel Reale collegio-convitto “Carolino Calasanzio”, Cannizzaro confessa di non aver avuto nessun insegnamento di scienze naturali. Lasciato il convitto il 1841, frequenta fino al 1845 i corsi universitari di medicina, ma segue anche corsi di letteratura e matematica. Alla fine però non consegue alcuna laurea. C’è da pensare che poiché all’Università di Palermo si potevano conseguire solo le lauree in medicina, legge e teologia, Cannizzaro non avendo nessuna vocazione per le stesse rinuncia al possesso del titolo di studio conseguente. Siccome nella stessa Università non vi erano nemmeno laboratori di chimica o di fisiologia, Cannizzaro frequenta prima il laboratorio privato di Michele Fodera, celebre fisiologo e poi si adatta ad allestire un laboratorio di chimica in casa propria (come usavano gli alchimisti medioevali che organizzavano laboratori segreti nei pressi delle loro camere da letto).

Comunque sia, nella seconda metà del 1845 si ferma a Napoli per seguire un “Congresso degli scienziati italiani”. Qui conosce Macedonio Melloni, un fisico che poi lo presenta a Piria, giovane trentaduenne, già professore all’Università di Pisa. Forse Cannizzaro non si rende conto che da quel momento la sua vita cambierà per sempre. Piria infatti gli offre il posto di preparatore straordinario nel Laboratorio di chimica dell’Università di Pisa. Qui, nei due anni trascorsi alle dipendenze di Piria, si impossessa dei segreti della chimica. Alla fine di luglio del 1847, tornato in Sicilia, si fa coinvolgere dai convulsi avvenimenti politici di quel periodo: la rivoluzione del gennaio 1948, la caduta di Messina, l’armistizio, la vittoria delle truppe regie. Cannizzaro, che aveva partecipato a diverse fasi di questi avvenimenti, essendo stato condannato a morte, fugge a bordo della fregata Indipendente, rifugiandosi a Marsiglia. Grazie ad una lettera di Piria prende servizio presso un piccolo laboratorio di chimica di Chevreul a Parigi, ove entra in contatto con vari chimici fra cui Regnault. Negli anni successivi Cannizzaro si sposta in vari luoghi che proviamo a riassumere.

Dal 1851 al 1855 è professore di fisica, chimica e meccanica presso il Collegio Nazionale di Alessandria (allora nota come Alessandria della Paglia) ove riesce ad allestire un efficiente laboratorio chimico. A ottobre del 1855 viene nominato professore di chimica all’Università di Genova, al posto di Piria che si era trasferito all’Università di Torino. Durante la permanenza a Genova pubblica il suo famoso “Sunto”. Realizza anche, non senza difficoltà, un laboratorio chimico. Abbiamo già accennato alla sua escursione a Karlsruhe del 1860. A Genova rimane fino al 1861 quando si trasferisce all’Università di Palermo. Anche a Palermo, quasi come effetto di un destino predisposto, si trova ad allestire, superando mille difficoltà, un laboratorio chimico efficiente e si fa coinvolgere in altre attività: diventa consigliere comunale ed assessore, allestisce scuole tecniche e organizza corsi serali per operai, assume la carica di rettore (dal 1866 al 1868). Si fa candidare alle elezioni dei deputati del nuovo Parlamento italiano, per conto del partito liberale moderato, ma viene trombato per pochi voti. Nel 1870 è fra i fondatori della “Gazzetta Chimica Italiana”.

Il 1871 si trasferisce all’Università di Roma come professore di chimica e quasi contemporaneamente viene nominato Senatore per meriti scientifici. Allo stesso tempo, ancora una volta, si attiva per realizzare un laboratorio chimico nell’ambito di un istituto, nell’orto di S. Lorenzo in Panisperna. La nomina a Senatore non viene intesa da Canizzaro come un titolo onorifico, sicchè lo si trova impegnato in numerose iniziative, in modo particolare in alcune che risentono della sua passata esperienza. Come è stato messo in evidenza (per ultimo da Paoloni nella sua introduzione alla ristampa del “Sunto” prima citato), le esperienze fatte come allievo del corso di fisiologia di Fodera, le frequenti epidemie di colera a Palermo che lo avevano privato di due fratelli, spiegano la sollecitudine e l’attenzione con le quali si dedica ai problemi della sanità pubblica. I suoi suggerimenti vengono accolti nella legge del 1888 (Legge per la tutela e l’igiene della sanità pubblica) di Francesco Crispi, che resterà in vigore fino al 1978.

La sua esperienza come organizzatore di laboratori chimici lo portano a proporre l’istituzione di un “Laboratorio Centrale” presso la Direzione della Sanità pubblica del Ministero dell’Interno, affiancato da una rete di “Laboratori Provinciali di Igiene e Profilassi” dipendenti dalle Prefetture (in seguito trasferiti alle Province, sempre a caccia di compiti e poi alle ASL). Il Laboratorio Centrale si trasformerà nel 1932 in Istituto di Sanità Pubblica e poi in Istituto Superiore di Sanità. Instancabile organizzatore, tra il 1883 e il 1886, è tra gli artefici della fondazione dei Laboratori Chimici dei Tabacchi e delle Gabelle (poi trasformati in Laboratori Chimici delle Dogane). Il 1886 il Ministro Magliani istituisce a Roma il primo di questi laboratori, affidandolo alla direzione di Cannizzaro. Negli anni successivi sorgono altri laboratori: il 1887 a Genova, il 1895 a Livorno, il 1896 a Venezia, il 1901 a Milano e Napoli, ecc. Fra i successori di Cannizzaro è da ricordare Villavecchia, che poi si ritrova tra i fondatori della Merceologia in Italia. Fin qui i tratti principali di Cannizzaro come chimico-patriota-politico.

A noi preme sottolineare anche altri aspetti del Cannizzaro-professore-scienziato. Per primo sembra utile evidenziare che è del tutto improbabile rilevare errori o sviste nell’opera scientifica di Cannizzaro. Al contrario, da questo esame non si salva quasi nessuno, nemmeno i più illustri. Basta ricordare Newton che credeva nella possibilità della trasmutazione dei metalli (era figlio del suo tempo), il grande Lavoisier che credeva nell’esistenza del calorico, Fermi che non si era accorto di aver realizzato la fissione (anche per colpa di Segrè che aveva diretto le analisi), lo svarione di Pauling che credeva di aver individuata la struttura del DNA, Rutherford che aveva ipotizzato una struttura dell’atomo che non poteva reggere e così via per tanti altri scienziati. Gli errori di questi però sono da definirsi utili in quanto hanno consentito ad altri di correggere il tiro e migliorare le teorie, i modelli. Non ci riferiamo ovviamente agli errori che commettono i cultori della cosiddetta “Scienza patologica” che non danno alcun contributo e anzi servono a confondere le idee agli sprovveduti: i seguaci della chiromanzia, i visionari degli UFO, i praticanti dello spiritismo, ecc. ecc.

Ebbene Cannizzaro appartiene ad un’altra categoria di scienziati, altrettanto utili, quelli che si potrebbero definire “costruttori”. Questi utilizzano le scoperte o le teorie di altri per unirle e ricavare modelli più solidi o più generali, contribuendo così al progresso della scienza. Fra questi eccelle, probabilmente più degli altri, Niels Bohr che utilizzando le ipotesi, le teorie o le scoperte di altri, nel caso specifico la teoria dei quanti di Planck, i lavori di Balmer e la struttura dell’atomo ideata da Rutherford, ipotizza una conformazione degli atomi in grado di spiegare tutti i fenomeni osservabili. Un lavoro di assemblaggio definito da Einstein “un’enorme conquista”. Per questo nel lavoro di questi scienziati è difficile trovare sviste o errori.

Un altro aspetto che vogliamo segnalare è l’amore di Cannizzaro per l’insegnamento e quindi la necessità di renderlo più efficace possibile. Per questo era totalmente convinto che gli allievi dovessero apprendere anche l’evoluzione storica della chimica e del lavoro svolto dai protagonisti. L’attenzione di chi sta apprendendo una nuova disciplina deve concentrarsi su tutte le fasi che la stessa disciplina ha attraversato durante la sua evoluzione storica. Nel suo “Sunto” Cannizzaro afferma testualmente: “Per condurre i miei allievi al medesimo convincimento che io ho, gli ho voluto porre sulla medesima strada per la quale io sono giunto, cioè per l’esame storico delle teorie chimiche”. Non sembra che questi concetti siano sempre stati applicati nelle nostre scuole ed è l’ultimo aspetto che riteniamo sia utile sottolineare.

Ci riferiamo all’attuale situazione in cui versano le Università italiane, soggette da più di 50 anni ad un metodico lavoro di smantellamento. Con l’ultima legge (del 30 dicembre 2010, n. 240) si è probabilmente inferto il colpo di grazia. Chiunque può constatare che se Cannizzaro (e questo vale per la maggior parte degli scienziati italiani prima citati e di altri successivi fino ai giorni nostri) si fosse presentato ad un concorso odierno per ottenere un giudizio di idoneità (si badi non per ottenere una cattedra, ma solo per essere dichiarato idoneo!) non sarebbe stato nemmeno ammesso, non potendo superare le folli “mediane” previste: non ha scritto quasi nulla in lingua inglese, non ha scritto nulla con altri autori, le riviste in cui ha pubblicato non rientrano negli elenchi predisposti e, soprattutto, nessun valore avrebbe avuto il lavoro più importante svolto, rappresentato dal “Sunto” sottoforma di volume. I volumi non devono nemmeno essere presi in considerazione, qualsiasi argomento trattino.

Annotiamo con tristezza che per quanto attiene la classificazione delle riviste si raggiunge l’assurdo in quanto si invertono i termini: è la rivista che da prestigio e non è la qualità dell’articolo a dare prestigio alla rivista. Se si conoscesse un minimo di storia della scienza si appurerebbe che la maggior parte delle scoperte importanti, quelle che hanno dato un contributo al progresso delle scienze, non è stata mai valutata positivamente al momento della pubblicazione. Si può amaramente concludere che se fossero state ascoltate e applicate le intuizioni di Cannizzaro in tema di insegnamento e si fosse continuato ad applicare i sistemi di assunzione allora in uso, probabilmente il sistema universitario italiano si sarebbe salvato dall’azione dei riformisti che si sono succeduti dal dopoguerra in poi.

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